L'Italia non supera l'esame della Corte dei conti europei circa l'utilizzo delle risorse comunitarie destinate a progetti per l'efficienza energetica e, insieme ad altri Paesi dell'Unione, rischia di essere sanzionata per non aver applicato correttamente la direttiva sulle performance energetiche degli edifici.
L'efficienza energetica è al centro delle priorità dell'Europa per il 2020: l'obiettivo, per quella data, è aumentarla del 20% rispetto ai livelli del 1990. Un traguardo che appare lontano, nonostante i numerosi interventi legislativi e i fondi stanziati. Circa 5 miliardi di euro dal 2000 ad oggi, a valere sul Fondo di Coesione e sul Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fesr.
Sul fronte legislativo, molta attenzione è andata alle performance degli immobili, cui si deve il 40% del consumo finale di energia dell'Unione. Ma la direttiva 2002/91/CE per il miglioramento del rendimento energetico degli edifici, nota come Energy Performance Building Directive o EPBD - poi sostituita dalla direttiva 2010/31/CE -, è stata disattesa per anni da molti dei paesi Ue, al punto che nel settembre scorso 24 stati su 27 sono finiti nel mirino di Bruxelles per mancata, parziale o scorretta attuazione della normativa a livello nazionale.
Anche in Italia, tra i primi paesi a recepire la direttiva – che, tra le altre cose, introduce l’obbligo di certificazione energetica degli edifici -, i problemi non mancano. Le linee guida nazionali per la certificazione energetica sono state pubblicate solo nel giugno 2009, nonostante questa fosse già obbligatoria dal 2007 per tutti i nuovi edifici e per quelli con superficie superiore a mille mq.
In questo modo si è creato un vuoto normativo che molte regioni hanno colmato con regimi differenziati tra loro, dando luogo ad una grande frammentazione a livello nazionale. In più, a Bruxelles non è piaciuta la decisione di autorizzare i proprietari degli immobili ad autocertificare gli edifici attribuendogli la classe G. Tanto che l'autocertificazione è stata cancellata, con il decreto del ministero dello Sviluppo economico del 22 novembre 2012, e al suo posto è stato introdotto l'obbligo di rivolgersi a un professionista abilitato.
Non va meglio sul fronte della gestione delle risorse destinate all'efficienza energetica. Almeno così la pensa la Corte dei Conti europea, che nei giorni scorsi ha pubblicato un'indagine sull''Efficacia in termini di costi/benefici degli investimenti della politica di coesione nel campo dell'efficienza energetica' . Sotto la lente 24 progetti realizzati in Repubblica ceca, Italia e Lituania, i tre paesi che hanno ricevuto la quota più consistente di aiuti Ue, ma che poi, secondo la Corte, non hanno saputo sfruttarli al meglio.
I progetti finanziati sarebbero stati individuati più per l'esigenza di rinnovare degli edifici, soprattutto pubblici, che in vista di precisi, e ragionevoli, obiettivi di risparmio. Le autorità degli stati membri, secondo il report, non avrebbero tenuto conto del fabbisogno dei diversi settori, né del rapporto tra costi da sostenere e risparmio previsto. Il risparmio energetico era, si legge nel documento, “nel migliore dei casi una finalità secondaria” e le metodologie di misurazione, quando stabilite, sono risultate inattendibili al punto che per 18 progetti su 24 non è stato possibile verificare i risultati effettivi ottenuti.
Infine, la ciliegina sulla torta: il termine per il rimborso a chi ha effettuato gli investimenti è stato fissato dalle autorità dei tre paesi mediamente, in media, entro 50 anni, con punte massime fino a 150. In alcuni casi, oltre la vita utile degli stessi edifici rinnovati.
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