di
Francesco Bevilacqua
05-02-2013
Il 22 gennaio scorso gli israeliani sono stati chiamati alle urne. Al di là del dato politico e statistico, il sostanziale pareggio del recente confronto elettorale in Israele e le dichiarazioni che sono seguite hanno confermato che il nemico principale del paese rimane l’Iran.
In contemporanea con la bagarre della guerra civile siriana e il nuovo capitolo dell’impegno francese in Mali, nel mondo arabo e mediorientale si sta svolgendo in questi giorni un altro processo – per fortuna, non armato – molto importante per i destini dell’area interessata. Il 22 gennaio gli israeliani si sono recati alle urne per eleggere la diciannovesima Knesset e dopo le operazioni di voto sono cominciate le trattative – che, visti i risultati elettorali, si annunciano lunghe e complicate – per formare il nuovo Governo.
Il primo partito uscente, il Likud-Beiteinu del premier Benjamin Netanyahu, ha infatti portato a casa un risultato inaspettatamente negativo, conquistando solo 31 seggi sui 120 disponibili, 11 in meno rispetto alle precedenti elezioni del 2009. La sorpresa è stato il partito centrista Yesh Atid, guidato dal neofita della politica ed ex giornalista televisivo Yair Lapid, che potrà contare su 19 seggi. Terza forza, il partito Laburista di Shelly Yachimovich, social-democratica, femminista e anche lei proveniente dal mondo del giornalismo. Resiste il partito dell’ultra-destra Yewish Home, a cui spetteranno 11 seggi. La Knesset sarà quindi quasi perfettamente distribuita – 62 seggi contro 58 – fra la coalizione di maggioranza e quella di opposizione.
Piuttosto significativo è stato il dato relativo all’affluenza. Ha infatti preso parte alle operazioni di voto il 66,6% degli israeliani, circa il 4% in più rispetto al 2009, che per le tradizioni elettorali del paese è una percentuale molto elevata. Questa performance è valsa anche i complimenti da parte dell’ambasciatore americano Dan Shapiro.
Le reazioni post-scrutinio sono state abbastanza disparate. Netanyahu, cercando di mascherare la delusione per la mezza sconfitta, ha dichiarato che aprirà un dialogo con le altre forze politiche per formare un Governo di coalizione che includa tutti i partiti che si sono distinti nelle votazioni. Le trattative partiranno da una serie di punti su cui il premier uscente fonda la propria linea politica, il cui primo in ordine d’importanza è l’impegno a impedire lo sviluppo di armi nucleari da parte dell’Iran.
Su questo fronte e sulla politica estera israeliana in generale, l’outsider Lapid non ha espresso posizioni ben definite durante la campagna elettorale, anche se è difficile immaginare che spingerà per un deciso cambiamento di rotta nell’azione di Israele in Medio Oriente, pur avendo fatto capire che – almeno a parole – non tollererà la linea dura in merito alla questione palestinese.
Diversa la posizione di Shelly Yachimovich, che da anni è impegnata per il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale e che ha stuzzicato apertamente i leader del Likud invitandoli ad ammettere quella che, non tanto sul piano elettorale quanto piuttosto su quello politico, è una cocente sconfitta. Della coalizione di Governo farà parte anche Naftali Bennett del Jewish Home Party, formazione sionista – al pari di tutti gli altri maggiori partiti – e ultra-nazionalista, che rivendica senza mezzi termini la sovranità di Israele sui territori, rifiutando l’ipotesi paventata di un ritorno ai confini del 1967.
Ma il dato più importante del voto israeliano si può estrapolare da una dichiarazione di Netanyahu: “La nostra sfida più importante era e rimane quella di impedire all’Iran di ottenere armi nucleari”. È questa la chiave per leggere anche la storia recente e ancora in corso degli avvenimenti mediorientali, compresa la rivolta siriana, condita da una retorica cara alle forze occidentali che ha già dato i suoi frutti in diverse occasioni – dalla Serbia all’Iraq all’Afghanistan – e che è finalizzata a creare i presupposti per poter intervenire direttamente ed eliminare con la forza avversari militari e geopolitici scomodi per le potenze atlantiche.
È facile intuire che l’Iran rappresenta il nemico pubblico numero uno in Medio Oriente. Questo imprevisto contrattempo elettorale rischia di mettere in discussione, seppur molto timidamente, la linea politica di una pedina estremamente influente sullo scacchiere arabo, ovvero Israele. Ecco quindi che si rivela vitale la necessità di continuare a spaventare l’opinione pubblica interna e gli osservatori esterni con la minaccia nucleare iraniana, il grimaldello grazie al quale Tel Aviv e Washington sperano di aprire i cancelli che portano a Tehran.
Tale minaccia è stata peraltro smentita ripetutamente, oltre che dal diretto interessato, anche dalle testimonianze di numerose fonti terze, come il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, il servizio speciale pubblicato dall’agenzia Reuters nel marzo 2012 e addirittura le Dagan dichiarazioni dell’ex capo del Mossad Meir.
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