di
Emiliano Zanichelli
04-10-2010
"Se in Italia ci fosse il nucleare, avremmo un Pil più alto", con questo teorema il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, individua nell’uranio la chiave per la crescita del paese. Eppure, il rilancio del nucleare comporterebbe una serie di considerevoli perdite. Anche e soprattutto dal lato economico. Vediamo perché.
Il teorema di Tremonti è semplice: partendo dall’ipotesi che in Italia non produciamo energia nucleare, che la nostra situazione economica non è delle più floride, che altri paesi che se la passano meglio hanno delle centrali nucleari, si arriva alla tesi che se le centrali ce le avessimo anche noi potremmo permetterci dei tassi di crescita del PIL molto maggiori. La dimostrazione? È tanto lampante che non serve…
Senza entrare nel merito dell’inefficacia del PIL come strumento di misura del benessere di una nazione e dell’assurdità di puntare ad una sua crescita infinita, restano numerosi dubbi riguardo l’efficacia di una politica di rilancio del nucleare in termini di incremento della disponibilità energetica, dell’autonomia energetica, di potenziamento dell’economia e di tutela dell’ambiente.
È impensabile credere di poter aumentare i propri consumi all’infinito (è questo che stiamo cercando?), nessuna fonte energetica potrà mai essere sufficiente: né fossile, né rinnovabile, né tanto meno l’uranio.
Vivendo su un pianeta finito dobbiamo renderci conto che le risorse che abbiamo a disposizione sono disponibili in quantità limitata e l’uranio è una di queste. Secondo il rapporto Storm van Leeuwen-Smith se continuiamo con i tassi di consumo attuali avremo minerale uranio ad alta concentrazione a disposizione per circa altri 50 anni.
Ma oggi la produzione di energia nucleare copre solo una piccola parte del nostro fabbisogno. Con il nucleare produciamo solo energia elettrica, che costituisce meno di 1/5 dei consumi energetici mondiali. Inoltre, dei circa 20.000 TWh di energia elettrica consumati nel mondo, meno di 3.000 vengono prodotti dalle circa 440 centrali in funzione. Questo a fronte di problemi non proprio trascurabili ed ancora irrisolti: uno su tutti il confinamento delle scorie radioattive.
Se pensassimo di soddisfare interamente il fabbisogno di energia elettrica mondiale con il nucleare, l’uranio ad alta concentrazione ci basterebbe per poco più di 10 anni, più o meno il tempo necessario per la costruzione di una nuova centrale. Dunque una campagna di rilancio mondiale del nucleare appare come una soluzione decisamente di breve periodo.
In ogni caso credere che il nucleare potrebbe darci, anche per un breve periodo, energia a prezzi economici è profondamente sbagliato. La presunta economicità del nucleare (i tanto sbandierati 0,03 €/kWh) può essere accettata solo se si considera il funzionamento della centrale a regime, dimenticandosi colpevolmente di cosa succede prima e dopo: dal ciclo di produzione del combustibile, alla costruzione della centrale (i costi delle centrali oggi in costruzione, quella Finlandese prima tra tutte, stanno lievitando decisamente e oscillano tra i 5 e i 10 miliardi di euro), alla dismissione e allo smantellamento della stessa (stiamo ancora pagando per le nostre quattro centrali italiane), fino al confinamento delle scorie che restano radioattive per migliaia di anni (per il deposito di Yucca Mountain negli Stati Uniti, oggi abbandonato, sono stati spesi più di 80 miliardi di dollari).
Ma senza entrare in calcoli dettagliati di costo al kWh, un segnale inequivocabile dell’anti-economicità del nucleare lo offre il fatto che nei paesi dove le centrali si sarebbero potute costruire in questi ultimi anni, nessun privato si è mai sognato di costruirne una senza finanziamenti pubblici, ed è questo il motivo per cui il nucleare nel mondo attraversa una fase di stagnazione.
Certo con sostanziose iniezioni di denaro pubblico (dimenticandosi per un attimo dei pregi del libero mercato) l’investimento diventa molto più interessante, ma allora perché non finanziare la produzione di energia da fonti realmente rinnovabili, che hanno costi paragonabili se non minori del nucleare e di certo non comportano alcun problema collaterale in termini di sicurezza, inquinamento, proliferazione?
Non solo: una politica incentrata sulla promozione della produzione decentrata di energia rinnovabile con piccoli impianti avrebbe ricadute occupazionali distribuite sul territorio sicuramente maggiori di quelle ottenibili con il rilancio del nucleare, che si tradurrebbe - secondo la logica di tutte le grandi opere - in un ingente flusso di denaro pubblico dalle tasche di tutti i contribuenti a quelle di poche imprese, per giunta non italiane, visto che ormai non abbiamo più né le tecnologie né le competenze in questo settore.
Il conto energia per gli impianti fotovoltaici (recentemente prorogato al 2013) ha dato ottimi risultati, così come i 4 anni di incentivi sotto forma di detrazioni fiscali per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici esistenti, che hanno permesso dal 2007 al 2009 la realizzazione di circa 600.000 interventi per un investimento complessivo di circa 8 miliari di euro con un risparmio di circa 4.400 GWh.
Sarebbe davvero un peccato se questi incentivi non dovessero essere prorogati anche oltre il 2010.
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