Malgrado le sue dichiarazioni di intenti 'green', l'Eni è responsabile di devastazioni ambientali sia in Italia che all'estero, tra cui quella del delta del Niger. Colpevoli in quest'ultimo caso sono però anche Shell e Total, colossi petroliferi che operano in quest'area ed estraggono idrocarburi ricorrendo al 'gas flaring', tecnica altamente inquinante.
“La responsabilità ambientale costituisce uno dei pilastri fondamentali dell'agire sostenibile ed è strettamente connessa alla capacità di un'impresa di creare valore. La richiesta di valutazione, controllo e mitigazione degli impatti sull'ambiente si estende a tutto il ciclo di vita delle attività e dei prodotti oltre che a fornitori e clienti. L'approccio Eni comprende la valutazione dell'impatto ambientale e sociale (ESIA) delle attività, effettuato attuando il massimo coinvolgimento degli stakeholder locali”.
Questa altisonante dichiarazione di intenti green e social è consultabile sul sito dell’Eni, l’ente nazionale idrocarburi. Sul suo sito l’azienda petrolifera italiana, società per azioni a partecipazione pubblica praticamente controllata dallo Stato, annovera anche diverse certificazioni e audit ambientali, registrazioni EMA, Bilanci di Sostenibilità, Sistemi di Gestione HSE (Sistema di gestione integrato Salute Sicurezza e Ambiente HSE esteso a tutti i siti e/o attività delle Divisioni e delle Società controllate).
Nonostante questa serie di riconoscimenti che dovrebbero certificare il comportamento ‘responsabile’ del colosso degli idrocarburi, le denunce da parte di associazioni, cittadini, istituzioni pubbliche per le devastazioni ambientali e gli impatti sociali sulle comunità locali, sia in Italia che all’estero, continuano ad interessare l’Eni e, per la proprietà transitiva ed effettiva, lo Stato italiano.
Il Comune di Noto in Sicilia, la Val d’Agri in Basilicata, o le raffinerie di Taranto sono tra gli esempi di inquinamento ambientale più impattanti in cui l’Eni è stata causa conclamata ma per i quali non si è ancora arrivati ad una condanna e ad un risarcimento degli enormi danni arrecati agli ecosistemi e alla popolazione civile.
Eni non si limita a desertificare solo alcune aree del bel paese, il suo raggio d’azione è globale.
L’ong Amnesty International, in occasione dell'assemblea degli azionisti di Eni a Roma di martedì 8 maggio, ha invitato la compagnia petrolifera ad impegnarsi per la bonifica di tutte le zone inquinate e attuare misure preventive efficaci nella regione del delta del fiume Niger, in Nigeria, dove Eni opera dagli anni Sessanta mediante la sua controllata Naoc (Nigerian Agip Oil Company).
“Fino al 1° novembre, le attiviste e gli attivisti di Amnesty International Italia organizzeranno iniziative di sensibilizzazione e di raccolta firme per sollecitare Eni a impegnarsi pubblicamente a intraprendere un'analisi dell'impatto sui diritti umani di tutti i progetti relativi al petrolio nel delta del Niger, assicurare la piena consultazione delle comunità colpite e un'adeguata informazione nei loro confronti, rendendone poi pubblici i risultati, bonificare le aree inquinate dalle fuoriuscite di petrolio e porre fine alla pratica del gas flaring”, ha dichiarato Carlotta Sami, direttrice generale dell'associazione.
L’Eni non è però l’unica responsabile dello scempio ambientale e sociale nel delta del fiume Niger: Shell e Total sono gli altri colossi petroliferi che operano in questa area ed estraggono idrocarburi ricorrendo al 'gas flaring'. È un processo che consiste nel bruciare a cielo aperto gas naturale collegato all'estrazione del greggio, una pratica da noi vietata per gli elevatissimi livelli di emissione di CO2 ma, evidentemente, questo non vale per il popolo nigeriano che, agli occhi dell’azionista Eni, è dotato di un particolare sistema di respirazione auto filtrante, tipo branchie da gas serra.
La Nigeria, infatti, è il primo 'inquinatore' al mondo per le emissioni di anidride carbonica (settanta milioni di tonnellate di CO2 da combustione l'anno), ma l’aria irrespirabile non è l’unica conseguenza delle attività estrattive di Eni, Shell e Total: la pesca, l’agricoltura, le foreste di mangrovie rappresentano attività primarie ed ecosistemi necessari alla sopravvivenza delle popolazioni locali ma che sono irrimediabilmente devastate, perlomeno alla scala umana, dalle attività estrattive.
Oltre alle emissioni, infatti, sono da mettere in conto le numerose fuoriuscite di petrolio provocate dalla corrosione degli oleodotti, dalla scarsa manutenzione delle infrastrutture, da errori umani o da deliberati atti di vandalismo e furti di petrolio.
I settori del gas e del petrolio costituiscono il 97 per cento delle entrate del commercio estero della Nigeria e contribuiscono al 79,5 per cento del bilancio del paese. Dagli anni Sessanta dello scorso secolo, il petrolio ha generato circa 600 miliardi di dollari d'introito.
Questi introiti, però, gli abitanti del delta del Niger non li hanno mai visti e neanche immaginati: questa è una delle aree più povere del pianeta dove il 60 per cento della popolazione locale vive di fonti di sostentamento tradizionali, come la pesca e l'agricoltura. Qui milioni di nigeriani vivono in condizioni disumane in un ambiente caratterizzato da suoli, acque ed aria contaminati; si negano loro i diritti fondamentali dell’essere umano, come quello alla salute e ad un ambiente sano, il diritto al cibo e all’acqua, quello di guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro.
Amnesty International Italia porta avanti da alcuni anni un dialogo con Eni, sviluppatosi sia attraverso una serie di incontri sull'impatto delle attività della compagnia petrolifera sui diritti umani delle comunità del delta del Niger, sia in qualità di operatore che come partner della joint venture guidata dalla Shell Petroleum Development Company e ritenuta dal Programma per l'ambiente delle Nazioni Unite (Unep) responsabile per il disastro ambientale causato dal petrolio nell'Ogoniland, una zona del delta del Niger.
Finora il dialogo non è servito a molto e la popolazione del delta del Niger continua a morire a causa delle attività estrattive con la connivenza di miliziani e politicanti corrotti.
Si ripete il solito scempio ambientale e sociale da parte di quelle multinazionali che per la loro natura non hanno nessun legame con il territorio né con le comunità autoctone dove operano le loro aziende. Eni è una di quelle imprese globali che crede ancora di poter mettere al centro della sua mission il dividendo dei propri azionisti senza tenere conto della responsabilità sociale che compete al suo ruolo di impresa.
A niente valgono tutte le certificazioni e le azioni filantropiche di multinazionali come Eni: si tratta di un’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste finalizzate alla creazione di un'immagine mistificatoria, al solo scopo di distogliere l'attenzione da proprie responsabilità nei confronti di impatti ambientali negativi, una pratica che in gergo tecnico si definisce green washing.
Mi chiedo se il cittadino che rifornisce il suo autoveicolo ad una stazione Eni, quel cittadino che impreca mentre fa il pieno per l’ennesimo rialzo del prezzo della benzina, sia consapevole che lui è uno degli azionisti di quella azienda che vende l’oro nero, mi chiedo se sia consapevole che dietro ad ogni goccia del prezioso oro nero c’è una storia di devastazione ambientale, di negazione di diritti umani, anche lì, nel suo ‘Bel paese’.
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