di
Mario Apicella
31-01-2012
"Un pane ben fatto è un miracolo di armonia, il risultato che pochi equilibristi sanno realizzare, una poesia che tutti vorremmo divorare". Come realizzare dunque un pane ben fatto? Ce lo spiega Mario Apicella.
Quando capita di assaggiare un pane ben fatto è inevitabile soffermarsi sul suo profumo, serve immaginare i gesti ancestrali che lo hanno prodotto, è bello pensare al fuoco che lo ha cotto, bisognerebbe ricordare il contadino che ha scelto la varietà del grano, capire come lavora un mulino a pietra. Un pane ben fatto è un miracolo di armonia, il risultato che pochi equilibristi sanno realizzare, una poesia che tutti vorremmo divorare.
In realtà per produrre un pane ben fatto, come per tutte le produzioni artigianali, serve passione e perseveranza, umiltà e orgoglio, costante apprendimento ed esercizio, coscienza dei risultati sempre diversi che si potranno ottenere in funzione non solo delle farine usate, ma anche della luna e dell’orario, degli umori e delle stagioni, della motivazione con cui lo si produce e dell’energia quindi che con tale motivazione si trasmette al cibo ed a chi se ne alimenta.
Soffermandosi con attenzione dunque non bastano gli standard numerici per definire le caratteristiche qualitative di un prodotto, questi parametri anzi ne appiattiscono il valore e ne limitano a dismisura le potenzialità. Oggi per fortuna vengono sempre più usati dei concetti di valutazione tridimensionali, in cui più che alle fredde misure matematiche (percentuale di umidità massima, percentuale di glutine, farine raffinate 00, ecc.) si dà valore all’indagine sensoriale ed esperienziale (profumo, sapore, conservabilità, digeribilità, ecc.), mentre in molte sensibilità inizia ad affermarsi anche l’importanza della dimensione spaziale chilometro zero, produzioni locali, filiera corta) e della dimensione temporale (grani antichi, ricette tradizionali, conoscenze tramandate). Un importante contributo per una oggettiva valutazione qualitativa è stato dato, grazie a Rudolf Steiner, dall’Agricoltura Biodinamica e dall’Antroposofia che la sottende, con i metodi per immagini, come la cristallizzazione al cloruro di rame, per rilevare il grado di vivificazione e di organizzazione delle sostanze vegetali.
Per l’ottimo pane così introdotto serve richiedere il massimo da tutte le quattro fasi della filiera che, dalla terra all’intestino, permettono a questo alimento basilare di nutrirci anziché di avvelenarci: 1) coltivazione e relativa scelta della varietà di cereale, 2) molitura tradizionale a pietra, 3) panificazione previa appropriata lievitazione, 4) utilizzazione finale comprensiva della conservazione e della stessa masticazione.
I cereali
Il pane si produce con i cereali che contengono due distinte proteine che in presenza di acqua e movimento formano il glutine, una importante proteina che rende elastico l’impasto, amalgamando in una rete filamentosa le sostanze nutritive presenti nelle farine e negli stessi microrganismi che ne provocano la fermentazione, con l’indispensabile contributo che il germe e gli strati esterni del chicco, compresa la buccia, forniscono all’intero processo digestivo.
Per la panificazione quindi le farine più indicate risultano quelle di Grano tenero (Triticum aestivum) di Grano duro (Triticum durum) di Farro (Triticum dicoccum), come anche dell’iraniano Khorasan (Triticum turgidum) del piccolo Farro (Triticum monococcum) e dello Spelta (Triticum spelta). Le farine di questi cereali risultano le più ricche di glutenina e gliacina e possono essere utilmente miscelate con farine di Segale (Secale cereale) di Orzo (Hordeum) e di Granturco (Zea mais) per la produzione di un buon pane fatto solo di farina, acqua, lievito madre e se si gradisce un poco di sale.
I cereali per oltre 10 millenni sono stati selezionati in funzione della digeribilità e del sapore, della produttività e della conservabilità, del loro adattamento ai diversi territori ed alle stesse cure colturali, venendo accuratamente scelti per essere seminati, dividendo i chicchi più belli e più sani dai più striminziti e meno vitali. Il farro (Triticum dicoccum) ad esempio (come anche lo Spelta, il piccolo Farro ed il Khorasan da cui è derivato il Kamut), è un antichissimo frumento che ancora produciamo in Italia, appartenente a questo tipo di selezione.
Si parla in questi casi di 'popolazione' più che 'specie' ben definita, essendo costituito da una moltitudine di semi, caratterizzati da diverse sfumature, che consentono nell’insieme di resistere al freddo ed alla siccità alla carenza di elementi nutritivi come all’abbondanza delle piogge; un vero signore insomma che tra l’altro, non essendo suddivisibile in varietà, non è stato oggetto di 'brevetto' da parte delle società sementiere.
Serve ricordare che i semi di frumento venivano scambiati e commercializzati, sin dai tempi dei Fenici, dei Greci e dei Romani, a grandi distanze e spesso le famiglie più ricche e avide riuscivano ad accaparrarsene enormi quantità per occultarle successivamente senza pudore al fine di provocare un aumento dei prezzi speculando, proprio come si continua a fare oggi.
Attualmente assistiamo alla lenta rivalutazione delle varietà di grano selezionate attraverso semplici incroci, dalla fine dell’800 fino agli anni ‘50, per le caratteristiche nutrizionali oltre che funzionali. Tra queste varietà vale la pena di ricordare, affinché vadano recuperate, mantenute in coltivazione e valorizzate: le varietà di Grano duro Dauno, Garigliano (Tripolino x Cappelli), Russello, Senatore Cappelli (1915), Timila e Tripolino.
Tra le varietà di grano tenero alcune più resistenti al freddo e poco esigenti in fertilità: Abbondanza (1950). Autonomia (1938), Frassineto (1927), Gentil Rosso, Ovest (1952), Verna (1953), Vivenza (1932). Meno resistenti al freddo e più esigenti in fertilità erano invece: Campodoro (1952), Conte Marzotto (1959), Generoso (1952), Mara (1947) e Produttore (1954). Tra le varietà , sempre di grano tenero, con presenza di reste aghiformi e quindi meno gradite in fase di maturazione dai cinghiali, tutte esigenti per la fertilità, si ricordano Aurora (1952), Falchetto (1955), Fiorello (1947), Fortunato (1948), Funo (1944), Funone (1955), Funotto (1952), Glutinoso (1957), Leone (1955), Mentana (1923) e San Marino (1954)
Con il sopravvento delle concimazioni chimiche il grano, che con i suoi lunghi steli spesso rischia di piegarsi (allettarsi) proprio durante la maturazione sotto il peso delle spighe mature, del vento e delle eventuali piogge, divenne ancora più soggetto, crescendo sbilanciato, ad essere allettato. Si rese obbligatoriamente necessario quindi selezionarlo per ottenerlo nano, resistente ad una nutrizione squilibrata e chiaramente sempre più produttivo, trascurando la sua digeribilità e la correlata panificazione naturale delle sue farine.
Non si risparmiò nulla pur di ottenerne il chiaro risultato di far vendere azoto sintetico all’industria chimica che doveva sconfiggere la fame nel mondo! Ricordo un professore, tra l’altro Senatore della prima Repubblica, che si illuminava prospettando di lanciare azoto per via aerea sui pascoli magri della meravigliosa Murgia barese.
Nessuna attenzione fu posta dunque, dagli anni '60 in poi, alle reali proprietà organolettiche dei grani, ma solo alle esigenze della nuova industria molitoria e dei pastifici emergenti e soprattutto all’adattamento alle irragionevoli concimazioni chimiche.
Ai bambini spieghiamo, durante gli interventi nelle scuole elementari, che ogni pianta contiene almeno 25-30 elementi chimici, tutti indispensabili per il suo accrescimento armonico e per la sua salute. Concimando puntualmente solo con azoto e al massimo anche con fosforo e potassio cosa succede agli altri micro elementi presenti nel terreno? Succede che venendo ugualmente assorbiti dalle radici delle piante diminuiscono sempre di più, rendendo i terreni sempre meno fertili e facendo avanzare la desertificazione.
Gli importantissimi microrganismi, gli insetti e la complessa biodiversità vegetale, che nella madre terra vivente interagiscono, si nutrono e si riproducono, perdono il loro naturale equilibrio per cui il grano coltivato si ritrova squilibrato (allettandosi anche in senso figurato) perdendo assurdamente la sua funzione di alimento.
Alcune nuove varietà di grano si ottennero da vere e proprie mutazioni genetiche indotte ad esempio con l’uso scriteriato del Plutonio (varietà Creso tuttora diffusissima), mentre i genetisti si vantavano di poter mettere a disposizione degli agricoltori (non certo per arricchirli o farli lavorar di meno) “nuove razze ad alta produttività e superiori qualità industriali”. La moderna industria molitoria intanto aveva sostituito con i suoi mulini meccanici l’artigianato diffuso ovunque che utilizzava meravigliosi molini a pietra.
Mentre i grandi pastifici, dovendo omologare il prodotto, agli inutili minuti di cottura indicati in etichetta (mentre sempre assaggiamo la pasta prima di scolarla), preferivano incassare i soldi che lo stoccaggio del grano locale tuttora consente di ottenere ed acquistare dall’estero (Canadà soprattutto, ma anche Australia, Sud America e lo stesso Egitto) l’omogeneo grano migliorato geneticamente, squilibrato e avvelenato (entro i limiti di legge) dalle concimazioni chimiche, dai disserbi e dai trattamenti chimici.
Dopo la raccolta il grano, immagazzinato nei silos metallici che mortificano il paesaggio rurale, riceve un'altra dose di specifici pesticidi.
Chi ancora crede o vuol far credere che la chimica farmaceutica ha salvato il mondo dalle malattie, nasconde la propria testa in un deserto di interessi economici davvero incalcolabili.
La molitura
Un buon grano coltivato in modo naturale e magari di una varietà non migliorata per gli interessi degli industriali, merita di essere macinato a pietra in modo da produrre una farina non riscaldata consentendo, grazie ai 60-100 giri al minuto, che gli amidi si mescolino con l’olio contenuto nel germe e permettendo alle cellule più esterne (strato aleuronico) di liberare fitasi, un’importante enzima che il nostro organismo non è in grado di produrre, in grado di neutralizzare l'acido fitico presente nei cereali e colpevole secondo alcuni studi del cattivo assorbimento del calcio e dei diversi minerali presenti negli stessi cereali. Le cellule della buccia durante la molitura vengono sbriciolate in fiocchi che vanno a formare la crusca e il cruschello permettendo di ottenere la farina integrale.
Le farine che ci vendono e tutte quelle utilizzate dai panifici sono ormai ottenute da mulini a cilindri metallici che, ruotando a 300-350 giri al minuto, scorticano letteralmente i diversi strati del chicco separando, per sole ragioni economiche, crusca, cruschello, tritello, germe e amido. Si ottiene così una farina omogenea a base di amido impoverito, conservabile e poco digeribile, in cui la fitasi prodotta dallo strato aleuronico non si libera e in cui i minerali e le vitamine scarseggiano.
L’industrializzazione della produzione del grano, delle farine e dello stesso pane ha generato il controsenso di farci ingerire alimenti raffinati che necessitano di apporti esterni di enzimi e vitamine per essere digeriti e che costituiscono pericolose concause delle malattie glicemiche!
La presenza nel germe di pregiate sostanze grasse soggette ad un graduale irrancidimento viene controbilanciata da una buona presenza di vitamina E che è un antiossidante per eccellenza, nonché dalla vitamina B1, aminoacidi essenziali, acidi grassi insaturi, sali minerali…
La normativa italiana ed in particolare il Dpr 502 del 20.11.1998, poco considerato dal successivo Dpr 187 del 9.02.2001, considerando il pane ottenibile anche dalla “miscelazione di diversi tipi di sfarinati” permette di fatto le frodi legate all’utilizzo di farine poco pregiate (riso, fave e ceci ad esempio) obbligando solo ad indicare sul bancone lo sfarinato aggiuntivo che secondo il panettiere caratterizza il pane, mentre tutti gli altri ingredienti possono essere indicati in un elenco che non deve necessariamente seguire l’ordine decrescente previsto dalla precedente Legge 580 del 1967. L’art.4 stesso del Dpr 502/98 inoltre, permette di impiegare nel pane liberamente ogni altro tipo di “ingrediente alimentare”.
Chiaramente non si sta trattando del pane conservato né del pane precotto che per legge possono contenere di tutto di più: dai migliorativi e conservanti chimici, agli ingredienti sbiancanti e antimuffa, con favolosi tensioattivi per mantenere il pane fresco, acido ascorbico per renderlo soffice, solfato di rame per non so che cosa, ecc., fino ad un totale di 41 additivi ammessi in Italia.
Il grado di raffinazione delle farine, infine, va insensatamente a definire il tipo di pane che ci viene venduto, per cui abbiamo pane di semola e di semolato proveniente dal grano duro mentre per il grano tenero troviamo il "tipo 00", "tipo 0", molto raramente il "tipo 1" e "tipo 2" ed infine il "tipo integrale” che prima del chiarimento apportato dal Dpr 187 del 2001 (art.1) consentiva l’innaturale aggiunta di crusca alla farina di amido impoverito, senza il germe quindi e senza tutte le importanti sostanze contenute nella parte più esterna del nostro chicco. Definire il pane in base a queste tipologie è giustamente comparabile, come sostiene Wikipedia, a definire le caratteristiche di un vino in base alla forma della bottiglia.
La panificazione
Chiarito che cereali sarebbe meglio usare e che tipo di molitura ha garantito da sempre all’uomo di rendere digeribile il grano (coscienti che qualche mugnaio utilizza sbiancanti mentre la maggioranza dei panificatori utilizza i miglioratori e semilavorati), non ci resta che vedercela da noi e impastare la nostra farina con la pasta madre, dell’acqua tiepida e pura, volendo un pizzico di sale e lasciare lievitare il tutto, rimpastare nuovamente, dare forma alle nostre pagnotte e infornare.
La lievitazione fatta con pasta madre (o pasta acida) è più efficace di quella fatta con lievito di birra, in un impasto ben lievitato l’acido fitico ad esempio, viene neutralizzato fino al 100%, mentre i funghi microscopici lavorano con i lattobacilli arricchendo il pane di innumerevoli nutrienti.
Il pane viene cotto in un forno già caldo, meglio se a legna, utilizzando in questo caso ramaglie provenienti dalle potature di olivo di vigna di meli o di mandorli non importa, l’essenziale è la scaldata che viene data velocemente e in modo potente tale da lasciare solo cenere e riscaldare il forno per tutta la durata della cottura ad una temperatura variabile tra i 250°ed i 180°
Il nutrimento
Le fascine di ramaglie accatastate vicino alle abitazioni contadine indicano che in quell’azienda c’è una donna che fa il pane per la sua famiglia, di solito una volta alla settimana. Molto utile e produttivo risulta chiederle quindi suggerimenti e scambiare con lei esperienze ed opinioni su tale arte da far rivivere in ogni famiglia, coinvolgendo possibilmente i bambini che proprio in queste occasioni diventano fieri e coscienti di produrre naturalezze giocando anziché di consumare prodotti artificiosi squilibrandosi.
Dopo la cottura serve far raffreddare il pane in un luogo asciutto, permettendo all’umidità che evapora di lasciare fragrante la crosta, potendolo poi conservare avvolto con carta da pane rivestita da un panno di flanella o di cotone. Appena sarà finalmente addentabile il pane si potrà gustare, masticandolo con cura e presenza, quasi in contemplazione si può dire. La ptialina contenuta nella saliva scinderà gli amidi in zuccheri iniziando proprio in bocca il processo di digestione, mentre il nostro cuore sarà in grado di ricordare, in un solo istante volendo, la madre terra che ha accolto i semi assistendo al sacrificio di milioni di esseri viventi durante le necessarie lavorazioni agricole, il contadino che dopo aver scelto i cereali li ha seminati e raccolti, il mugnaio che li ha macinati, il fornaio che ne ha impastato i preziosi ingredienti ed infine chi ce lo ha portato e servito a fette.
La sua energia, non è poco, dovrebbe servirci a beneficiare di tutti gli esseri con cui ci relazioniamo.
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