Alcuni giorni fa c’è stata una sparuta dimostrazione di fronte a una nota multinazionale dell'alimentare da parte di alcune donne addette al confezionamento dei suoi prodotti.
Capeggiate da un sindacato di base, hanno reclamato salari migliori, che attualmente sono di 5 euro netti l’ora. Inoltre hanno dichiarato che alcune lavoravano da 20 o 30 anni in quella posizione e ancora erano sostanzialmente precarie, senza certezze del lavoro, con turni e orari che cambiavano a seconda di stagioni o interessi dell’azienda. Questi concetti di sfruttamento e mancanza di diritti, sono stati ribaditi con forza dai sindacalisti presenti.
E’ interessante osservare che a essere considerato uno scandalo siano le paghe e non anche il fatto che si tratta di una delle multinazionali che a livello mondiale produce prodotti alimentari insalubri e dall’impatto ambientale devastante, con tanto di campagne critiche realizzate da associazioni ambientaliste.
Un recente studio, finanziato dall’UNICEF e dall’Applied Research Collaboration (ARC) del National Institute for Health Research (NIHR) Oxford e Thames Valley, ha classificato i prodotti di questa multinazionale come non salutari. Ma non una parola su questo aspetto vergognoso è arrivata né dal sindacato nè dalle lavoratrici, che si rammaricano pure di non poter comprare per i propri figli gli alimenti malsani che confezionano (e meno male, direbbe qualcuno che ha a cuore la salute...).
La vecchia malattia del sindacato (qualsiasi sindacato, tranne rarissimi casi) di fregarsene dell’impatto delle aziende soprattutto sull’ambiente si ripropone ancora una volta in tutta la sua forza e dannosità. Per il sindacato importa solo che si paghino più soldi, poi che si producano bombe, carri armati e aerei militari da miliardi di euro, alimenti insani, chimica, "gratta e perdi", "cinafrusaglie", centrali nucleari, navi mostro da crociera o qualsiasi altra follia, è indifferente. E se siamo nella situazione tragica in cui siamo, lo si deve anche ai sindacati, che praticamente mai hanno messo al primo posto l’aspetto ambientale e di conseguenza la salute delle persone.
Ma analizziamo ora l’aspetto dei soldi. Come è possibile che le persone accettino di lavorare decenni per paghe da fame senza pensare a delle alternative? Siamo così schiavi di una mentalità per la quale avere un lavoro, non importa quale e come, è l’unico aspetto che conta? Pure se lo sfruttamento è evidente?
E non c’è solo questo gruppo alimentare; sono tantissime le persone che si fanno deliberatamente sfruttare da altre multinazionali, dai call center, dagli studi di professionisti di ogni tipo, che prendono stagisti pagandoli miserie o non pagandoli affatto e che poi sono spesso le persone che si sobbarcano i lavori più impegnativi. Ci sono persone (e non stiamo parlando di immigrati in condizioni disperate che purtroppo raccolgono pomodori o altro nei campi, perché in questo caso siamo prossimi all'autentica schiavitù) che accettano anche 2,5 euro l’ora, di fare straordinari non pagati, di rimanere più a lungo sul posto di lavoro per fare un favore ai proprietari o nella speranza di avere qualche garanzia contrattuale e poi vedersi spedite a casa alla fine del periodo di prova che nel frattempo è magari durato molti mesi. E questo senza calcolare anche gli eventuali costi di spostamento con mezzi privati o pubblici per arrivare al posto di lavoro e il tempo necessario che si somma a quello lavorativo. Se ci si mettono anche questi costi, si arriva all’impressionante paradosso di lavorare per quasi niente. La cosa ancora più misera di tutto ciò è che alle persone sembra normale essere sfruttate da questi “padroni riconosciuti” e quindi non pensano ad alternative o magari ci pensano quando, sfinite, hanno già "ingrassato" per anni e anni i loro sfruttatori.
E se poi per qualche motivo l’alternativa si presenta e non ha i parametri dello sfruttamento e del lucro ma magari ha cause e obiettivi nobili, allora si storce il naso e con difficoltà si prova qualcosa che non solo avrebbe più senso da ogni punto di vista ma alla lunga magari darebbe anche maggiori garanzie economiche piuttosto che non lo sfruttamento as usual. Una sindrome di Stoccolma lavorativa dove il lavoratore sembra avere bisogno di essere sfruttato e se si presenta qualcosa di meglio ma che esce dai canoni normali, non la si riconosce e considera nemmeno.
Quindi, visto che tanto l’unica cosa che conta per sindacati e lavoratori sono i soldi, facciamo due conti per capire se accettare di essere sfruttati è una scelta sensata anche dal punto di vista economico.
Già solo se ci si fa un orto autoirrigante (per il quale servono superfici minime e lo si può fare anche dove non c’è terra) si risparmiano non pochi soldi. Se poi si crea un contesto di ecovicinato, di aiuto, scambio e supporto reciproco, con utilizzo condiviso di alcuni beni che non si usano costantemente, acquisti collettivi, recupero di vestiti, mobili o simili che agli altri non interessa più avere, si raggiunge in proporzione la cifra che veniva elemosinata dai padroni di turno. E il tutto senza l’impiego del tempo che gli si regalava. Quindi oltre che guadagnare praticamente le stesse cifre, ci rimane pure del tempo per fare altro, magari proprio un lavoro sensato ed etico.
Se infatti ci si inserisce in un contesto di risparmio, non spreco, condivisione, riuso, riparazione, attenzione e quindi di intelligenza, non solo quello che serve per vivere diminuisce drasticamente ma lo si può ottenere con meno tempo, meno lavoro, meno sforzo, meno stress di quello regalato ai padroni sfruttatori di turno. In fondo il vero lavoro da fare è solo azionare il cervello, ci sembra sia una cosa ampiamente fattibile, se si vuole. Se non si vuole, ovviamente si troveranno mille scuse e assurdità per dirsi che non si può fare e quindi si continuerà testardamente a regalare il proprio tempo, la propria vita e i propri soldi agli sfruttatori di turno.
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