I consumi di pesce hanno falcidiato le popolazioni ittiche in tutti i mari e gli oceani del pianeta. Eppure l’interesse primario anche di chi afferma di avere a cuore le cosiddette buone pratiche della sostenibilità ambientale, continua ad essere quello di conservare le proprie abitudini alimentari convenzionali.
Man mano che le magagne ambientali, e non soltanto, del nostro modo di alimentarci cominciano a venir fuori ci troviamo di fronte a un pullulare di iniziative tendenti a riciclare questa o quella fra le abitudini alimentari convenzionali sotto le mentite spoglie della sostenibilità. I cibi animali, ovviamente, hanno un ruolo di primo piano in queste operazioni di 'depurazione' mediatica così come l’hanno nella devastazione della biosfera.
I consumi di pesce sono fra questi. Giunti ormai a 29 Kg a persona all’anno in Italia (erano 3 Kg nel 1929) e a cifre simili un po’ in tutti i paesi industrializzati, simili consumi hanno falcidiato le popolazioni ittiche in tutti i mari e gli oceani del pianeta.
Si crede comunemente che l’impoverimento dei mari sia iniziato con l’industrializzazione della pesca, negli anni ’50 del XX secolo. Non è così: il problema era già sentito nel XIX secolo e si dispiegava già in forme particolarmente gravi agli albori del XX, in un’epoca cioè in cui i mezzi di pesca, rapportati agli attuali, erano come case di bambole di fronte a grattacieli [1].
Già questo dovrebbe far riflettere sulla labilità del concetto di 'pesca sostenibile' ma sembra che al contrario l’interesse primario, anche di chi ha a cuore le cosiddette buone pratiche della sostenibilità ambientale, sia quello di conservare il più possibile le proprie abitudini alimentari convenzionali. Su questo terreno, i cui moventi inconsci ho analizzato in un precedente articolo, ha buon gioco ad attecchire ogni operazione di riciclaggio della cultura alimentare sporca del signor Rossi industrializzato. In due di queste mi sono imbattuto negli scorsi mesi.
La prima viene dall’alto, è il progetto Fish Scale che è stato promosso dall’Acquario di Genova, Legambiente, Lega Pesca, ACGI Agrital, Softeco Sismat e Coop Liguria, con il supporto della Commissione Europea e dalla Regione Liguria.
La seconda viene dal basso, più esattamente dalla Lega Consumatori che qualche tempo fa si è interrogata sul problema della ammissibilità o meno del concetto di consumo sostenibile di prodotti ittici. La risposta è, inutile dirlo, positiva.
Cominciamo dalla prima iniziativa, presentata in un sito web la visita al quale è particolarmente istruttiva. Leggiamo ad esempio che “delle oltre 700 specie commestibili, solo il 10% circa è effettivamente commercializzato” [2] e subito pensiamo che nel mare ci sia una grande abbondanza sprecata. Ma il dato contenuto in questa frase è fuorviante perché nulla ci dice circa l'entità di tali specie in termini di peso.
Più istruttivo è il dato, presente anch'esso nella stessa pagina web, dello stato degli stock ittici nel Mediterraneo da cui risulta che il 66% degli stock sono sovrasfruttati, il 20% sono completamente sfruttati e solo il 14% è sottosfruttato. Questa campagna dunque mira a 'valorizzare' (leggi sfruttare) quel già misero 14% sotto la ormai fin troppo strombazzata eticchetta della (falsa) sostenibilità.
Tutto ciò ricorda molto il discorso della 'valorizzazione' dei tagli di carne di seconda scelta (in realtà da sempre ampiamente sfruttati) come 'soluzione' al disastro ambientale della zootecnia ed ha tutta l'aria di essere l'ennesimo tentativo di dare una lavata di faccia alle inqualificabili abitudini alimentari dei paesi industrializzati.
Sembra inoltre che i fautori della pesca 'sostenibile' non abbiano le idee molto chiare su cosa è sostenibile e cosa no. È interessante ad esempio un confronto fra il sito web Il Pesce Ritrovato e l’opuscolo di Eletta Ravelli Guida alla pesca sostenibile diffuso dalla Lega Consumatori a conclusione delle proprie riflessioni sulla 'sostenibilità' della pesca. Nella Guida sono presenti tre liste di pesci indicate rispettivamente a semaforo rosso (a rischio di estinzione o comunque gravemente sfruttate), giallo (seriamente intaccate ma non a rischio) e verde (ancora in buono stato).
Particolarmente perplessi lascia la 'lista del pesce ritrovato' presente nel sito web del progetto Fish Scale se la mettiamo a confronto con le tre liste della Guida. Su 18 specie 'ritrovate' 11 sono presenti anche in esse. Ma 3 sono a semaforo giallo e una, il tonno alalunga, addirittura a semaforo rosso.
Fra quelle 'ritrovate' e a semaforo verde inoltre troviamo pesci come la lampuga la cui carne, ben lungi dall’essere trascurata, è molto apprezzata e ben pagata ed è pertanto oggetto di pesca sistematica, sia commerciale che sportiva. Non sarà superfluo a questo proposito aprire una digressione salutistica visto che i fautori del cibo 'sostenibile' lo sono anche del cibo 'sano': si sono verificati, in connessione con il consumo di questo pesce (soprattutto proveniente da acque tropicali ma, sia pur più raramente, anche dal Mediterraneo), casi di intossicazione da ciguatera, una tossina di origine non batterica per la quale non esiste antidoto.
C’è poi nell’elenco dei 'ritrovati' il pesce sciabola, già comunemente pescato nel Mediterraneo e il pesce serra, molto apprezzato in Grecia e Turchia, oggetto di pesca sportiva ma non commerciale perché è capace di squarciare le reti [3]. Cosa ci sia da 'ritrovare' in questi pesci non è chiaro né viene spiegato.
Della visita a questo sito rimane in sostanza un cumulo di parole prive di spessore e il ricordo di uno stucchevole filmato pubblicitario che alla fine rappresenta l’immagine più emblematica di questa campagna.
Passiamo all’opuscolo di Eletta Ravelli. La sostenibilità dei consumi di pesce si traduce secondo l’autrice nell’adottare i seguenti comportamenti.
1) Comprare solo pesce 'di stagione', cioè pescato al di fuori della stagione riproduttiva. Ma se ciò non è accompagnato da una congrua limitazione dei consumi rischia di essere efficace quanto le campagne per il giorno del non acquisto di carburante, quando tutti provvedono a riempire il serbatoio il giorno prima. È intuitivo infatti che decimare una popolazione ittica al di fuori della stagione riproduttiva ne limita fortemente le possibilità riproduttive nella stagione giusta, anche se la pesca in quel momento è sospesa.
Anche qui dunque la vera soluzione è esattamente quella che non viene neppure citata: limitare sensibilmente i consumi, o meglio azzerarli.
2) Fare la spesa 'col righello' per esser certi di comprare solo pesci adulti, ovvero che prima di essere pescati abbiano fatto in tempo a riprodursi. A parte il fatto che un simile comportamento è indisponente e sarebbe ben presto visto come offensivo da parte di qualsiasi pescivendolo, esso non ci garantisce che dietro il pesce 'con le misure giuste' che compriamo non ce ne siano dieci o più altri pescati e ributtati in mare (morti, s’intende) perché troppo giovani.
Ad esempio, ogni cinque granchi che giungono sui mercati altrettanti granchi giovani vengono catturati per 'errore' e poi rigettati in mare. Paradossalmente, esigere solo il pesce delle dimensioni 'giuste' può peggiorare la situazione perché se solo esso è commerciabile bisogna catturarne di più, con un aumento parallelo delle 'catture accessorie', inevitabile corollario di pressoché tutti i metodi di pesca esistenti.
A questo proposito bisogna aggiungere che, contrariamente a quanto afferma Eletta Ravelli, il consumatore non ha alcuna informazione sui metodi di pesca (e dunque sulla ipotetica selettività della pesca da cui proviene quel pesce) che, secondo l’autrice (pag. 5), dovrebbero per legge essere indicati sulle etichette esposte sui banconi insieme al pesce. Ho scrutato etichette dagli ipermercati della Brianza alle bancarelle sul lungomare di Messina ma di metodi di pesca sulle etichette non ho visto traccia.
Infine, cosa accade a una popolazione ittica costantemente depredata della sua componente adulta? Lo vediamo nel grafico che riproduce la piramide delle età in una popolazione soggetta a una pesca 'a norma di righello'.
Dopo alcuni anni la piramide si assottiglia enormemente compromettendo ugualmente le possibilità riproduttive della specie. Aggiungo che questo grafico è tratto da un libro del 1965 [4] ed è stato ricavato nell’ambito di uno studio del 1948, come dire che non è da oggi che queste cose si sanno. E sarebbe ora che chi si occupa di stili di vita sostenibili le inglobasse nel proprio patrimonio culturale… e alimentare.
In conclusione, con buona pace di Slow Fish e dintorni, allo stato attuale dei mari l’unica pesca sostenibile sembra essere quella raffigurata in una fotografia umoristica in cui mi sono imbattuto alcuni anni fa: seduto su un molo un vecchio signore con una canna da pesca in mano e, alle sue spalle, una ventina di gatti in paziente attesa. Signori, mettersi in coda, per favore.
Fonti
[1] G. Ricci, La nostra pesca marittima, Roma, 1929
[2] Fishscale, pagina Il Contesto
[3] Per le informazioni su ciascuna di tali specie vedi la rispettiva voce su Wikipedia
[4] Jean Dorst, Prima che la natura muoia, Edizioni Labor, Milano, 1969, p. 352.
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