Come spiega anche Il Sole 24 Ore, «il Comune di Bologna ha fatto la sua parte, cedendo i diritti d’uso dell’area (la proprietà resta pubblica, una cinquantina di milioni di valore), del resto si è fatto carico Prelios Sgr che attraverso il Fondo Pai ha raccolto risorse da 26 partner istituzionali (in prima fila il Caab, gli enti di previdenza professionali e il sistema cooperativo) per realizzare un progetto aperto, che ora prevede anche la costruzione di un albergo con 200 camere e porterà il valore complessivo dell’investimento a 165 milioni di euro. Ma il plafond complessivo è di 400 milioni, ci sono margini per ulteriori iniziative. La gestione è affidata a Fico Eataly World, società controllata dal gruppo internazionale di Farinetti assieme a Coop Alleanza 3.0 e al sistema cooperativo emiliano».
Ma perché le istituzioni locali si mettono al servizio di un centro commerciale privato? Non mi addentrerò nell’analisi della commistione di potere e interesse tra Hera (inceneritore a meno di 2 km), il Comune di giunta PD e le Coop emiliane.
Racconterò la mia esperienza e mi farò domande.
Il tour a pagamento (15 euro a testa) consiste in una camminata lungo le attrazioni, in cui vengono passate in rassegna le aziende presenti negli enormi spazi da terminal americano (pur non avendone visti, me ne posso immaginare facilmente uno: il più alto e il più lungo, a garanzia dei bisogni di sicurezza del popolo d’oltreoceano). Nel discorso di apertura si parla dell’importanza che FICO dà al chilometro zero, ovvero alla produzione in loco delle materie prime che, ci dicono, rappresenta il 90 % del cibo che viene venduto qui, sotto forma di mortadella, di panino, di focaccia, di bottiglia di vino, di birra…
Dopo essere passati davanti alla prosciutteria, la gentile signorina o, pardon, l’Ambasciatore della biodiversità come si definisce, ci accompagna fuori per vedere gli animali, ovvero la materia prima che tutti fotografano quasi fossero gli ultimi esemplari sulla Terra. Per la precisione, risultano gli unici esemplari di animali vivi a FICO.
Ma come fanno a rifornire il 90% della carne che viene servita nel grande supermercato? “Non è possibile”, mi dice la signorina e la mia domanda risulta paradossalmente senza senso nonostante la sua premessa sul cibo locale. Non mi sembra di essermi sbagliata. A questo punto, parlando di FICO come fornitore, si intende il gruppo Coop-Eataly. Quindi il cibo arriva dalla grande distribuzione, e come ormai tutti possiamo immaginare, non è sinonimo di eccellenza, né di cibo locale.
Ma d’altronde l’etica sembra essere una parola vetusta e all’entrata, il settimo punto riassuntivo dei valori di FICO, lo enuncia chiaramente: qui vendiamo l’identità italiana con profitto (a me suona male …).
E ho anche capito perché all’entrata, campeggino, attaccati alle colonne, i cartelli con il comandamento “Non rubare”. È un vessillo odierno, della nostra epoca ma non solo, compensare ciò che ci appartiene come mancanza o errore, con un’accusa o una censura rivolta ad altri.
Nel 2015, il ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Maurizio Martina, dichiarava: "FICO racchiuderà in un logo unico la produzione del cibo italiano, dal campo fino alla forchetta.“
Questo risultato non mi sembra sia stato raggiunto.
Si vede forse nella lista dei GAS (gruppi di acquisto collettivo) una delle 40 aziende qui presenti? Magari Alce Nero, che ho visto su uno scaffale, ma forse non primeggia tra le 40. Ma perché mai avrebbero dovuto inserire grosse aziende tra i produttori a cui le persone si affidano chiedendo trasparenza, fiducia, cibo sano, biologico e locale? La ricerca di qualità è una bufala con i grandi numeri, si rischia sempre di perderla per strada con un’eccessiva industrializzazione della filiera.
Se la qualità a FICO sono i marchi Amadori e Balocchi (solo per citarne alcuni), sicuramente anche questo obiettivo non è stato raggiunto.
Amadori, lo si ricorda qui, è balzato agli onori della cronaca non positivamente con la puntata della trasmissione televisiva Report del 29 maggio 2016
Trasmissione alla quale comunque Amadori ha replicato.
Un altro esempio: i due consorzi Grana Padano e Parmigiano Reggiano come possono parlare di eccellenza quando le condizioni delle mucche da latte di alcuni allevamenti che li riforniscono sono stati oggetto di pesanti critiche?
FICO non è un progetto innovativo, non apre strade nuove verso un mondo che se tardasse ancora ad essere realizzato, non lascerebbe speranze.
Dove è l’innovazione? Il più grande tetto fotovoltaico? Lo abbiamo già visto. Gli animali nei recinti? Ci sono già le fattorie didattiche sparse per le campagne bolognesi. I metodi di coltivazione? Il biologico e il biodinamico sono citati a lettere cubitali in un’area di FICO in cui si trova una, e dico una sola, azienda che coltiva realmente in modo biodinamico (l’unica che può essere autorizzata ad usare la parola etica). Ve la lascio cercare come caccia al tesoro. Anzi, magari suggerisco questa attrazione a Farinetti.
Il biologico è quello di alcune marche note e si trova in pochi scaffali. Nessun piccolo produttore.
Per essere innovativi, non solo si sarebbe dovuto vendere praticamente solo biologico (non parole ma fatti) ma cercare esperienze di nuove soluzioni per coltivare e produrre in sintonia con la vita e i cicli naturali. Vorrei dire a Farinetti che il biologico non è il futuro, perché ampliando la visione è probabilmente già il passato.
Certo poi se campeggia il mega trattore della New Holland Agricolture, di cosa stiamo parlando?
Ma quale didattica? Quali insegnamenti? Bisogna essere onesti, parlare di un nuovo centro commerciale dove la gente può vedere al di qua di ampie vetrine alcune lavorazione industriali o semi industriali.
La gente che vorrà un panino da McDonald andrà in via Indipendenza, quelli che lo vorranno pagare di più (per una qualità migliore sicuramente) si ritroveranno sotto il cartello Prosciutteria di FICO.
I bolognesi e gli italiani sarebbero andati fieri di un progetto capace di sviluppare reti per creare una maglia di micro economie sul territorio che fortificasse a più livelli gli abitanti, i piccoli imprenditori e i piccoli venditori, in un’ottica di vera etica e amore per il mestiere.
Volete un esempio?
A Bologna il progetto Camilla è rivoluzionario. FICO, a confronto, è la grande illusione perpetuata.
Bologna può scegliere tra i due e capire dove tira il vento del cambiamento.
Certo per chi guarda i numeri, li troverà solo da una parte.
Se comunque andate a FICO, aiuterete Farinetti &Co. a raggiungere il numero previsto di 6 milioni di visitatori all’anno.