di
Andrea Degl'Innocenti
10-04-2012
La questione dei finanziamenti pubblici ai partiti è emersa con forza dopo gli ultimi scandali e la maggioranza parlamentare sta lavorando a nuove norme che garantiscano più trasparenza nella gestione. Ma manca un dibattito pubblico che tenga conto della complessità dell'argomento e tutto si riduce ad un tentativo da parte della casta di mantenere i privilegi, a fronte della reazione sdegnata della cittadinanza.
Gli ultimi scandali che hanno coinvolto la Margherita e la Lega Nord hanno reso evidente – se ancora ce ne fosse bisogno – la necessità di mettere mano alle leggi che regolano i finanziamenti ai partiti politici. E hanno segnato l'ennesima sconfitta della nostra maltrattata democrazia.
La questione dei finanziamenti ai partiti è annosa ed è il classico esempio di come un principio di per sé corretto possa degenerare in un'applicazione del tutto immorale. Il principio corretto è il seguente: in una democrazia, lo stato ha il dovere di finanziare i propri partiti politici per garantire che essi siano autosufficienti e restino espressione della complessità di vedute e opinioni dei propri cittadini, piuttosto che diventare strumento di lobby e gruppi di pressione privati.
E fin qui la teoria. La pratica invece è tutt'altra, e vuole che i partiti abbiano gozzovigliato per anni a spese dei contribuenti, facendo ricchi i propri esponenti, trasformando la politica nella tanto odiata casta. Arrivando ad approvare leggi paradossali, come la 515/1993, che a fronte di un referendum abrogativo che sull'onda di mani pulite annullava la legge sui finanziamenti pubblici ai partiti, reintroduceva i finanziamenti stessi sotto forma di rimborsi elettorali. O la numero 157 del 1999, che svincola il rimborso elettorale dalle spese effettivamente sostenute. O infine la 51 del 2006, che vuole che i rimborsi, trasformati in annuali dalla 156/2002, vengano erogati sempre e comunque per i cinque anni di legislatura anche se il governo effettivo è durato pochi mesi.
Per dare solo l'idea della anomalia tutta italiana bastano alcuni dati. Per le elezioni politiche del 2008, a fronte di spese reali che ammontavano a 136 milioni di euro, i partiti hanno ricevuto rimborsi elettorali per 503 milioni. Nel solo 2010 i partiti italiani hanno ricevuto 285 milioni di euro di finanziamento pubblico; quelli tedeschi ne hanno ricevuti solo 133 milioni, i francesi 80, per non parlare della Gran Bretagna, dove i contributi spettano solo all'opposizione.
I vertici della maggioranza Pd-Pdl-Udc che sostiene il governo, spinti dalle voci ricorrenti su un possibile referendum come quello del 1993 contro i finanziamenti pubblici ai partiti, si sono riuniti per riscrivere in fretta e furia le modalità con cui i partiti possono essere finanziati. Le nuove norme verranno predisposte con ogni probabilità entro domani, in modo da essere presentate giovedì alle altre forze politiche.
Fra le idee in discussione, molte si incentrano sulla questione dei bilanci, che potrebbero essere sottoposti al controllo della Corte dei Conti, dovrebbero garantire una maggiore trasparenza, e sarebbero certificati e pubblicati in Rete. Per chi trasgredisce, sarebbero previste sanzioni con decurtazioni dei fondi, mentre sul fronte investimenti, verrebbero consentiti solo quelli in titoli di Stato.
Si tratta di norme necessarie, ma che, introdotte nel clima attuale – da chi fino a ieri usufruiva volentieri dei privilegi –, sembrano una disordinata corsa ai ripari, priva di una reale volontà di cambiamento. Anche perché, se venissero confermate le proposte attualmente in discussione, non v'è traccia di una ridiscussione delle modalità di finanziamento, ma ci si limita ad aumentare i controlli e le garanzie.
Ad ogni modo, sulla questione dei finanziamenti ai partiti, sarebbe necessario un dibattito molto più ampio di quello attualmente in corso, che sembra limitare la questione ad uno scontro fra una casta arroccata a difesa dei propri privilegi, ed un popolo giustamente infuriato, che vorrebbe eliminarli tutti – i privilegi - di botto.
La questione è in realtà più complessa. Annullare il principio di finanziamento pubblico alla politica significa abdicare alla possibilità di risanamento di un sistema che voleva lo stato al centro della società, e l'idea di rappresentanza politica al centro dello stato. Vuol dire riconoscere tale modello è marcio a tal punto da non poter più essere riformato.
Ma non è eliminando le spese della politica, né la classe politica, che si risolvono i problemi d'Italia. La politica ha abdicato negli anni al suo ruolo di portavoce delle istanze della cittadinanza per diventare il maggiordomo, ricco e viziato, di ben altri poteri e interessi economici. Sono questi poteri che oggi governano il paese, usando la politica come mero strumento.
Ora emergono alcune domande. È forse giunta l'ora di arrendersi a tale meccanismo e decidere che la politica dei partiti è morta, cercare da subito di costruire un modello nuovo di partecipazione e cambiamento che passi per l'impegno individuale? Oppure, dall'altro lato, siamo sicuri che allo stato attuale delle cose la politica non sia ancora l'unico mezzo con cui poter contrastare in parte l'invasione dei poteri economici? Sono domande a cui non si può dare una risposta certa, ma sarebbe importante che venissero perlomeno discusse.
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