di
Andrea Degl'Innocenti
20-02-2013
40mila persone hanno dato vita il 17 febbraio a Washington alla più grande manifestazione per il clima di sempre negli Stati Uniti. Obiettivo: far pressione sull'amministrazione Obama affinché prenda in mano la situazione e si opponga alle grandi multinazionali inquinanti del petrolio e del gas. Al centro delle proteste il progetto Keystone XL, l'oleodotto che dovrebbe portare il petrolio estratto da sabbie bituminose dal Canada al Texas.
Washington, 17 febbraio. Doveva essere la più grande manifestazione sul clima della storia degli Usa e non ha mancato le aspettative. Circa 40mila persone si sono trovate sul National Mall, il lungo viale monumentale che unisce il Campidoglio al Lincoln Memorial, per fare pressione sull’amministrazione Obama affinché vada “avanti sul clima”, “Forward on Climate” (questo il nome della manifestazione).
Giusto un po’ di numeri, per rendersi conto dell’enorme impatto avuto dall’iniziativa e dei passi da gigante fatti dal movimento per il clima nordamericano negli ultimi tempi. Ad organizzare l’evento sono state 168 associazioni: si va dal Sierra Club, la più antica e grande organizzazione ambientale degli Usa, a 350.org di Bill McKibben, passando per Greenpeace e altre organizzazioni minori. E poi i partecipanti: oltre ai già detti 40mila di Washington – erano persino di più a detta degli organizzatori – vanno contate le altre decine di migliaia di cittadini che hanno organizzato manifestazioni locali sparse per gli Usa e gli oltre un milione di attivisti online che hanno rilanciato l’iniziativa sui social network.
Il significato generale della manifestazione era di spingere Barack Obama a tener fede alle promesse fatte in campagna elettorale. Come ha spiegato Bill McKibben, fondatore di 350.org, “per 25 anni il nostro governo ha sostanzialmente ignorato la crisi climatica: ora un gran numero di persone stanno finalmente chiedendo che si metta al lavoro. Noi non dovremmo essere qui: la scienza dovrebbe aver deciso questo percorso da tempo, ma è necessario un movimento, per resistere a tutti quei soldi”. I soldi a cui fa riferimento McKibben sono quelli investiti dalle grandi multinazionali del petrolio e del gas per impedire che si approvino leggi contro le emissioni: 420 milioni di dollari tra il 1997 e il 2004 secondo un’inchiesta del giornale tedesco Die Zeit (ripresa e tradotta dall’Internazionale) destinata a diventare una pietra miliare sull’argomento.
La posizione scelta dai manifestanti nei confronti dell’amministrazione non è stata di aperta protesta ma di sostegno condizionato al presidente. Il messaggio per Obama era chiaro: ti abbiamo accordato fiducia per altri quattro anni, nonostante le tue politiche ambientali nel corso del primo mandato siano state deludenti, adesso è il momento di prendere in mano la situazione e darsi da fare sul clima.
In effetti nei prossimi mesi Obama dovrà affrontare scelte difficili sulle tematiche ambientali. A tenere banco è soprattutto la questione dell’oleodotto Keystone XL, che dovrebbe condurre il greggio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta, Canada, per quasi 2mila chilometri fino alle raffinerie del Texas. L’oleodotto rappresenta un elemento fondamentale nel piano delle Big Oil americane per triplicare la produzione di petrolio da sabbie bituminose dai 2 milioni di barili al giorno attulai a 6 milioni entro il 2030, per giungere ad un massimo di 9 milioni.
Ma il Keystone XL è diventato anche il simbolo delle rivendicazioni sul clima, per varie ragioni. Il petrolio estratto dalle oil sands, le sabbie bituminose, è più inquinante del 22 per cento rispetto al comune greggio. Estrarlo comporta un alto dispendio energetico e necessita di un enorme impiego d’acqua. Le falde acquifere delle zone estrattive risultano inevitabilmente contaminate. Tanta è l’acqua necessaria all’estrazione che tempo fa la Nestlé arrivò a proporre alla regione canadese dell'Alberta di creare una borsa dell'acqua per risolvere l'annosa questione di concorrenza fra agricoltori e compagnie petrolifere sull'utilizzo delle risorse idriche.
Fino a qualche anno fa - finché il greggio era presente in misura abbondante nei giacimenti – ottenere petrolio dalle sabbie era considerata pratica folle, al punto che le oil sand non erano neppure calcolate nel computo delle riserve mondiali. Ma il rapido esaurimento delle risorse ha portato le case produttrici a rivedere in fretta i propri piani e le sabbia sono finite d’un tratto al centro dei piani futuri delle Big Oil.
Insomma la questione dell’oleodotto è centrale nel dibattito Usa sul clima e può essere una cartina tornasole dell’impegno dell’amministrazione Obama. Come ha affermato il direttore esecutivo del Sierra Club Michael Brune durante la manifestazione, “Fra 20 anni, nel President's Day, la gente vorrà sapere che cosa ha fatto il presidente di fronte all'innalzamento del livello del mare, alla siccità record ed alle furiose tempeste causati dalla distruzione del clima. Il presidente Obama ha in mano una penna e il potere di mantenere le sue promesse di speranza per i nostri figli. Oggi siamo qui per chiedergli di usare quella penna per respingere la Keystone XL tar sands pipeline e di garantire che questo sporco, pericoloso oleodotto non sarà mai costruito”.
Dopo l’oceanica manifestazione del 17 febbraio, un altro appuntamento importante si prospetta all’orizzonte del movimento americano per il clima. Meno partecipato, ma non meno significativo. Si tratta del congresso nazionale del movimento anti-fracking che si terrà dal 2 al 4 marzo a Dallas, Texas. Nella patria delle più grandi raffinerie si riuniranno persone da tutto il paese per protestare contro il metodo di estrazione del petrolio attraverso fratturazione.
Scopo dell’iniziativa sarà “condividere storie, costruire abilità, diventare migliori portavoce, imparare quali sono le alternative di energia pulita al petrolio e al gas naturale, festeggiare le vittorie e aiutare a costruire questo movimento nazionale” (così si legge sulla pagina ufficiale dell’iniziativa).