Il terremoto dell’11 marzo 2011, e conseguente tsunami, provocò a Fukushima un disastro nucleare di enormi dimensioni: 20.000 tra morti e dispersi, migliaia gli edifici distrutti, 160.000 gli sfollati. Quello che si pensava dovesse essere un incidente limitato ad un’area di pochi chilometri si rivelò esserlo invece a livello mondiale. L'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò infatti che "le radiazioni provocate dal disastrato dell’impianto nucleare di Fukushima ed entrate nella catena alimentare sono più gravi di quanto finora si fosse pensato" e che l'effetto dell'incidente "è molto più grave di quanto chiunque avesse immaginato all'inizio, quando si pensava che si trattasse di un problema limitato a 20-30 chilometri".
A distanza di poco più di tre anni notizie trasparenti su quanto accaduto e su quanto stia ancora accadendo all’interno della centrale non ce ne sono. Statistiche allarmanti di radioattività dell’ambiente (suolo, falde acquifere, mare) vengono puntualmente smentite dalla Tepco, ovvero la società che gestisce l’impianto.
Accanto a questa tragedia, i cui effetti saranno visibili nel corso degli anni a venire, ce n’è un’altra, maggiormente visibile ed immediata: la depressione. Nel 2011 Seiji Yasumura, un gerontologo della Fukushima Medical University, affermava che «la salute mentale è la preoccupazione più significativa. Stress come quelli causati dall'evacuazione, dall'incertezza e dalle preoccupazioni su possibili sostanze tossiche invisibili sono legati a un aumento del rischio di problemi fisici come le malattie cardiache». Molte famiglie si ritrovano oggi in alloggi di precarietà costruiti a più di 30 km di distanza da Fukushima. Come il caso della famiglia Togawa, raccontata dalla rivista Nature. Kenichi, padre di tre figli, ex lavoratore della centrale, ogni sera gioca ai videogiochi bevendo sochu, un forte liquore giapponese. Spesso si addormenta davanti la televisione, risvegliandosi improvvisamente e pieno di brividi. Quel famoso 25 marzo del 2011 lui e la sua famiglia furono costretti a fuggire. Oggi si ritrovano a vivere in 30 metri quadri per un totale di tre stanze. «Sembra di vivere una vita temporanea. E’ come galleggiare in aria», affermano marito e moglie. Lui ha lasciato la palestra, distrutta dall’incidente, trovando rifugio come detto nei videogiochi e nell’alcool. Ma loro non sono gli unici. Molti dei vicini sono senza lavoro, mentre altri padri di famiglia hanno inviato lontano mogli e figli per paura della contaminazione. Si stima che circa 210.000 persone sono a rischio salute mentale. Ricercatori e clinici stanno cercando di valutare e attenuare i problemi, ma non è chiaro se il governo giapponese abbia la volontà, o il denaro, per fornire il supporto necessario. Né è certo che gli sfollati accetteranno alcun aiuto, data la loro sfiducia verso il governo e la loro riluttanza a discutere di problemi mentali. Questa combinazione potrebbe aumentare i tassi di ansia e gli abusi di sostanze psicotrope. Si morirà più di depressione, e conseguenti suicidi, che di tumori, affermano gli esperti. Come il caso dei coniugi Watanabe, ai quali, pochi mesi dopo l’evacuazione, viene concesso dalle autorità e solo per otto ore il privilegio di tornare alla loro casa abbandonata. La signora Hamako però insiste: vuole dormire di nuovo nella sua casa. E il marito Mikio acconsente. La mattina seguente la tragica scoperta: mentre lui dorme, la moglie esce in giardino e, cosparsasi di cherosene, si dà fuoco. Da quel momento nasce un’altra storia. Mikio fa causa alla Tepco, affinchè venga condannata come colpevole del suicidio della moglie, malata di depressione. La sentenza ci sarà a breve, e l’avvocato di Mikio appare fiducioso: «Il giudice è rimasto impressionato dalla determinazione del mio cliente, il quale non è interessato al lato economico, ma a quello morale. Sono fiducioso e dovrebbe essere una sentenza storica, come quella che condannò la Toyota nel 2002, per la morte di un suo dipendente per “karoshi”, ovvero morte da superlavoro».
Il piano di evacuazione funzionò sì, ma l’atteggiamento mentale dei giapponesi di Fukushima nei confronti del futuro è tutto da studiare. Nel gennaio 2012, i ricercatori hanno inviato un questionario a tutti i 210.000 sfollati per valutare i tassi di stress e ansia. I livelli tra gli oltre 91.000 intervistati sono "molto alti", dice Yuriko Suzuki, psichiatra presso l'Istituto Nazionale di Salute Mentale di Tokyo. Circa il 15% degli adulti ha mostrato segni di stress estremo, cinque volte oltre il tasso normale, e uno su cinque ha mostrato segni di trauma mentale - un tasso simile a quello di primo intervento durante gli attacchi dell'11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Un ulteriore sondaggio rivolto ai bambini, e compilato dai genitori, ha mostrato livelli di stress circa il doppio della media giapponese.
Poco si sa circa gli effetti a lungo termine di queste paure, in parte perché gli incidenti nucleari sono così rari. Ma il caso Chernobyl insegna che la paura di radiazioni può causare danni psicologici duraturi. Gli effetti psicologici su quelli che furono i bambini evacuati di allora sono visibili ancora oggi. «Subito dopo un evento traumatico si può vivere un periodo di super energia, ma il mancato ripristino della normalità a lungo andare causa maggiore stress e il rischio è quello della comparsa di ansia o depressione», afferma Ronald Kessler, che si occupa di sanità alla Harvard Medical School di Boston. I motivi che portano a queste conseguenze nel caso dei giapponesi sono soprattutto la perdita della casa e del lavoro, oltre alla paura sottile e costante del rischio radioattivo.
La paura qui si chiama “radiofobia”, una paura che si avverte per il futuro della propria salute e soprattutto per quella dei figli a causa delle radiazioni. Tanti sono i giapponesi che effettuano check up periodici; e tanti i bambini che indossano dei dosimetri distribuiti dal sistema sanitario per raccogliere i dati sulle radiazioni ambientali. Ma spesso questo non basta. E la fiducia nei confronti delle rassicurazioni comunicate dallo Stato, soprattutto sugli alimenti, è pressoché pari allo zero. Ma un dato per tutti evidenzia il problema: mentre a livello nazionale si è registrato un calo dei suicidi negli ultimi tre anni, dal 2011 nella zona di Fukushima sono aumentati. Sono circa 1.500, non tutti legati direttamente alla tragedia nucleare, ma certamente maggiori dei 54 ufficiali riconosciuti dalle autorità come “direttamente legati all’incidente nucleare”.
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