Baffi, pizzetto e uno sguardo docile, di chi osserva la realtà senza invaderla, in maniera silenziosa e rispettosa. La telecamera in mano, quasi assente, invisibile, non aggressiva. E un modo di raccontare le immagini con semplicità naturale, senza grandi artifici editoriali. Simone Camilli era un videoreporter ed era mio coetaneo. Romano come me. Ed è morto sul lavoro, un’altra morte bianca che sarà dimenticata nel tempo. Si trovava a Gaza, terra mai doma e pacifica. Era lì per filmare. Per riprendere la realtà delle cose. Per fare giornalismo. Quello sul campo, in mezzo alla polvere. Un giornalismo che ti sporca nel fisico e, spesso, anche nell’anima. Simone era uno così. Non faceva giornalismo da Gaza o dalla Georgia o dal Kosovo standosene in una camera d’albergo, seduto comodamente su una sedia, davanti ad una scrivania e a migliaia di news che scorrono velocemente sul pc. Lui no. Come Andrea Rocchelli, Fabio Polenghi, Enzo Baldoni, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, aveva bisogno di vivere la guerra per poterla raccontare. Senza di lui, senza tanti ragazzi che fanno amabilmente questo mestiere, non avremmo mai avuto un’informazione più dettagliata, più equilibrata, più libera.
Già, la libertà. Questa parola tanto sconosciuta nel giornalismo italiano. Il nostro Paese ricopre la posizione numero 49 nella classifica del Word Press Freedom Index, indicatore della libertà di stampa nel mondo. Siamo dietro a Estonia, Giamaica, Costa Rica, Namibia, Capo Verde e Ghana. Per i giornalisti la colpa è degli editori; per gli editori è dei politici e delle difficoltà economiche; ai politici sta bene così: il controllo della stampa e dell’opinione pubblica è una delle forme più importanti per controllare la massa.
Chi quella libertà ha cercato di raggiungerla e mostrarla al Paese è stato il giornalista Luigi Abbate, licenziato perché reo di aver domandato ciò che non doveva all’ex patron dell’Ilva, Emilio Riva. «La realtà non è così rosea visti i tanti morti per tumore…». Una domanda scomoda, si dice nel nostro gergo. Lui, giornalista di Blustar, emittente televisiva a libro paga dell’Ilva per 100.000 euro l’anno, finisce anche sulla bocca di Nichi Vendola, il quale, intercettato telefonicamente, lo definisce un “provocatore”. Luigi Abbate viene così licenziato, ufficialmente per crisi economica, ufficiosamente perché inviso alla politica.
Scrive Beppe Lopez nel libro La Casta dei Giornali: «Scandali e casi di pubblica immoralità hanno sempre trovato un buco per emergere all’attenzione dell’opinione pubblica, anche se spesso distratta e poi dimentica. […] Nel caso della distribuzione di danaro pubblico in favore dei giornali e dell’editoria, questo non è successo. Per lunghissimi anni, nessuno o quasi ne ha scritto. I giornali italiani non hanno mai documentato o denunciato o solo informato i propri lettori sull’anomalo e, per le finanze pubbliche, costosissimo sistema in base al quale venivano tenuti in piedi o arricchiti, man mano che si confezionavano norme su misura per questa o quella testata e si liquidavano somme a pioggia. Proprio questo indubitabile conflitto d’interessi (giornali deputati ad informare l’opinione pubblica su come lo Stato gestisce il danaro pubblico, ma anche, in questo caso, percettori di danaro pubblico) aggrava le responsabilità non solo morali di editori e giornalisti, a cominciare dai direttori. Soprattutto di questi, si deve dire, perché direttamente responsabili della messa in pagina delle notizie e, di fatto, gestori esecutivi della libertà d’informazione».
Spinti dall’amore per questo mestiere e dal dovere morale di raccontare senza filtri e censure, molti ragazzi, come Luigi Abbate, si tolgono il bavaglio dalla bocca. O come Simone Camilli, nonostante una famiglia a cui dedicarsi, partono per zone di guerra pericolose. Senza, purtroppo, far ritorno. «Sono fiero di lui», afferma il papà di Simone. Lo siamo anche noi.
Commenti