'Il grano e la malerba' è il titolo dell'ultimo libro di Wolf Bukowski, un racconto che parla di agricoltura e di resistenza, "quella che si fa nel quotidiano, nel prendersi cura dei luoghi, delle relazioni, dei saperi come dei semi".
Non è un racconto sull'eroismo. La resistenza di cui scrive Bukowski è quella che si fa nel quotidiano, nel prendersi cura dei luoghi, delle relazioni, dei saperi come dei semi; resistenza che si accompagna a senso di impotenza, a paura e alla difficoltà di decidere se e come rispondere alla violenza.
Il podere di Ca' de Pruni, nel piccolo comune di Querciolo, e coloro che lo abitano non sono veri protagonisti del libro. Dei personaggi del racconto - Michele, Lucy, Simone, Elena e Angelo - si intuiscono solo alcuni tratti del carattere, pochi dettagli del passato di ciascuno; non serve andare a fondo nelle singole storie per capire da dove vengono, verso cosa si muovono. Più importante è la storia che passa, che si va facendo, attraverso di loro, nell'essere insieme.
I cinque approdano al podere per motivi diversi: per una fortuita eredità che spalanca l'incognita di un'alternativa rispetto alle prospettive anguste di nuovi lavori precari, per ribellione, perché la terra non si impara sui libri o perché un terreno lo si aveva già ma è stato sacrificato all'altare dell'ennesima grande Opera.
Ma il mito di quello sviluppo distruttivo che si autoproclama modernità ha tante facce. E a loro tocca affrontarne una temibile: gli OGM. Qui il racconto si rivela un'analisi lucida di meccanismi ormai collaudati, in Italia, ma non solo, per prevenire il dissenso, distorcendo la realtà, senza mai discutere del merito.
L'emergenza che rende ovvio ciò che prima sembrava impensabile. Fattori contingenti manovrati dalla cattiva informazione, le obiezioni trascurate, le parole espropriate, la sovranità alimentare che dà diritto a un “cibo salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici” diventa la formula del colonizzare, dello sradicare e del distruggere. E poi, la parola magica, il progresso, anche se nessuno sa dire verso cosa e perché. Il progresso che in questo caso si chiama OGM, come altrove si chiama Tav. In comune c'è solo la vuotezza di questo nuovo che mentre avanza distrugge le prospettive, anziché aprirne; toglie futuro, invece che garantirlo.
Il panico creato dall'emergenza facilita la resa, la prepotenza di quel richiamo al progresso respinge tutto ciò che resiste nel ridicolo o nel sovversivo. Non è tempo di 'discorsi complessi'. A quel punto, scrive Bukowski, nessuno “vorrà sentir parlare dell'eccesso di terreni dedicati a mangime o biofuel, dell'insostenibilità della dieta statunitense come modello di dieta globale o degli squilibri causati dal neoliberismo in campo agroalimentare. A ognuna di queste questioni verrà data una sola risposta: gli OGM”.
Alla fine, nella campagna congiunta del governo e della multinazionale Gencrou, è il non transgenico a risultare non sicuro. L'imperativo di modernizzare l'agricoltura è bipartisan: i populisti dell'Alleanza nostrana temono che la crisi alimentare provochi nuove ondate migratorie; il segretario del partito Post-democratico è stanco dei “tabù degli ambientalisti”.
Chissà come mai la fede incrollabile nei profitti di un mercato e di una finanza che non conoscono limiti non è mai etichettabile come un tabù; la si qualifica sempre come razionalità. Forse anche perché la presa di parola di chi quei cosiddetti tabù saprebbe come spiegarli non è prevista. “La parte degli oppositori viene assegnata d'ufficio a quelli che adoperano argomenti elementari”, osserva Bukowski, e se pensiamo ai nostri talk show gli esempi non mancano.
A Querciolo, le ragioni contro l'introduzione del frumento OGM sono affidate a un volantino. Il problema della contaminazione dei semi non GM, la dipendenza dalle multinazionali, l'impossibilità di riseminare i propri semi, la disinformazione che promette di risolvere la fame senza affrontare le cause del mancato accesso al cibo.
Dove non arriva la retorica, arriva, infine, la prepotenza, la violenza. Il difficile è sapere come fronteggiarla senza farsi spezzare la spina dorsale, come nell'aneddoto di Bertolt Brecht riportato da Bukowski. Però risposte, di fronte al problema della violenza, non ce ne sono. Il finale non è scritto, forse perché ciascuno la violenza deve guardarla in faccia, scovarla nelle trame di un potere “che ci trova, come bambini delle scuole elementari, sempre lontani dal posto che ci è stato assegnato”, trovare il coraggio. In fondo, “battersi contro la paura è la parte più difficile”.
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