«Mi vengono in mente gli amici che stanno male». Poche parole, pronunciate da Fausto Mastrantonio, a fatica, singhiozzando, nel giro di trenta secondi. Un tempo televisivo lunghissimo, un'eternità rispetto a quelle nove poche parole. Secondi e parole che racchiudono in un attimo tutta la disperazione, la sofferenza e l'angoscia di un ex operaio della Goodyear Spa, la cui intervista apre Happy Goodyear, film documentario sugli ex operai della multinazionale di pneumatici con sede a Cisterna di Latina, realizzato da Elena Ganelli e Laura Pesino, e proiettato nei giorni scorsi al cinema Oxer di Latina, in una sala gremita all'inverosimile. Fausto Mastrantonio, a cui il docufilm è dedicato, non vedrà purtroppo la fine delle riprese. E' morto di tumore l'1 gennaio 2013, giorno di Capodanno. Data che darà vita al titolo Happy Goodyear. Ma Fausto è solo uno dei circa 200 casi accertati di morti per tumore legati direttamente al ciclo di lavoro della fabbrica. Considerata come una madre che avrebbe portato lavoro, benessere e ricchezza nelle famiglie dei dipendenti e nella zona depressa pontina, si è rivelata invece una bomba di veleni, disseminatrice di morte. Una delle tante sparse in Italia, con cui adesso bisogna fare i conti. Questi morti, secondo il comitato dei familiari delle vittime, sono da imputare ai veleni respirati in fabbrica durante il ciclo di produzione delle gomme. Un numero destinato ad aumentare ancora, visto il lungo periodo di latenza di molte patologie tumorali e neoplasie varie, non tutte riconosciute in sede di dibattimento. Intanto l'ecatombe di operai non cessa. Una strage silenziosa e dimenticata, sullo sfondo di due processi penali, di cui uno appena chiuso con l'assoluzione di tutti gli imputati tranne uno.
«Il documentario è nato per raccontare l'inchiesta giudiziaria che stavamo già seguendo come giornaliste - affermano le autrici, Elena Ganelli e Laura Pesino - E, mano a mano che andavamo avanti, ci siamo rese conto della sofferenza delle famiglie e abbiamo quindi deciso di sottolineare il lato umano di questa vicenda, non dimenticando però di evidenziare le responsabilità degli addetti ai lavori, dai lavoratori stessi, noncuranti dei sistemi di protezione, ai dirigenti, ai sindacati e ai medici compiacenti».
Aperta nel 1965 e chiusa nel 2000, la Goodyear approda in Italia grazie ai fondi della Cassa del Mezzogiorno, stabilendosi in provincia di Latina, nel comune di Cisterna, una piccola città con economia prevalentemente agricola, primo avamposto del Centro Sud. Diventa così il simbolo dell’industrializzazione del territorio. Occupa per decenni migliaia di persone tra le città della provincia pontina e Roma, arrivando a toccare picchi di produzione di ventimila pneumatici al giorno. Per tutti è “mamma Goodyear”, che strappa gli uomini alla disoccupazione, dà lavoro e stabilità economica a famiglie monoreddito, consente di coltivare il sogno dei figli all'università e apre le porte anche a mogli e bambini in occasione dell’annuale “festa della famiglia”. Ma non è tutto oro quel che luccica. Happy Goodyear, vincitore al Riff, Roma Independent Film Festival 2014, come miglior documentario italiano, racconta, attraverso la voce di quattro ex operai, le precarie condizioni di lavoro, l'assenza di norme di prevenzione e sicurezza, la superficialità delle visite mediche, la preoccupazione che inizia a serpeggiare tra gli operai dopo i primi casi di tumore. Protagonista del documentario è Agostino Campagna, operaio e rappresentante sindacale, che nel 2000, alla chiusura della fabbrica, comincia ad annotare su un’agenda rossa i nomi dei colleghi e amici che si ammalano, poi a raccogliere casa per casa le loro cartelle cliniche. E’ lui che accompagna gli spettatori nel viaggio sul territorio di Cisterna, tra fabbriche ormai dismesse, campagne abbandonate e nuova edilizia, fin dentro le case degli operai e dei parenti delle vittime, raccontando il dramma silenzioso che dura tuttora, con altre vittime e nuovi processi. «Nel 1992 cominciai lo sciopero della fame - racconta Agostino - denunciando, anche attraverso l'affissione di manifesti per tutta Cisterna di Latina, che nella nostra fabbrica si moriva di tumore. Ma la risposta delle autorità sanitarie era che i valori ematici erano nella norma e che, quindi, potevamo stare tranquilli. La cosa dunque finì lì. Fu nel 2000, quando la fabbrica chiuse e ci ritrovammo in pensione, che cominciai a notare che molti miei ex colleghi si ammalavano di tumore. Pian piano se ne andavano silenziosamente. Decisi quindi di annotare tutti i casi. Siamo arrivati a 250 morti e 50 operati». Più di 150 le sostanze utilizzate nella fabbrica: polvere di nero fumo, fibre di amianto, solventi, vernici, carbon black, ammine aromatiche, derivati del benzene, pigmenti, collanti, silice, talco. Gli operai lavorano a mani nude o con guanti di amianto per resistere alle elevatissime temperature. Mangiano nella mensa vestiti con le tute blu di lavoro. Mensa peraltro separata dai reparti di produzione da una semplice porta. Nessuno di loro indossa mascherine. Nessuno conosce la tipologia delle sostanze che maneggia ogni giorno né tantomeno i rischi che comportano per la salute, perché i composti chimici che arrivano in fabbrica sono tecnicamente coperti da segreto industriale, identificati da codici o nomi di fantasia. I dirigenti tacciono consapevolmente, mentre gli operai, nonostante la doccia in fabbrica, tornano a casa coperti di nero, perfino dentro gli occhi, e maleodoranti. Di polvere nera restano impregnati gli indumenti, la biancheria, le lenzuola, le federe dei cuscini, nonostante i lavaggi. «A distanza di tanti anni - racconta un ex operaio - quando dormo lascio ancora un'ombra velata sul cuscino». Alla fine degli anni ’80 un lavoratore scopre di avere un tumore ai polmoni, ma la circostanza non suscita particolare attenzione. Il caso sembra isolato. Le visite mediche interne allo stabilimento, condotte dai medici dell’Università Cattolica di Roma, continuano a dare sempre lo stesso risultato sui libretti sanitari di fabbrica: “niente di rilevante”. A questo si aggiungono i ritardi temporali: visite semestrali effettuate annualmente. E libretti sanitari misteriosamente scomparsi. La storia va avanti fino all'intervento di Agostino Campagna.
Nel 2000 nasce quindi l’Associazione familiari e vittime della Goodyear che un anno più tardi, ad aprile, deposita una denuncia contro la multinazionale presso la Procura di Latina, proprio mentre la fabbrica decide di chiudere i battenti e di delocalizzare la produzione in Polonia. L’inchiesta muove i suoi primi passi, coordinata dal sostituto procuratore Gregorio Capasso, e accerta, grazie a migliaia di pagine di perizie e consulenze medico-legali, l’esistenza di un evidente nesso di causalità tra le sostanze utilizzate nella produzione di pneumatici, l’assenza di dispositivi di protezione e i tumori contratti dagli operai impiegati nella fabbrica di Cisterna. Le accuse ipotizzate per nove ex dirigenti dello stabilimento sono omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. Una tesi che sarà sostanzialmente accolta dal giudice del Tribunale di Latina che, dopo quattro anni di processo e circa 70 udienze, il 1 luglio del 2008 emette una sentenza di condanna a 21 anni complessivi di reclusione a dirigenti e ex direttori, riconoscendo il nesso di causalità tra le sostanze della fabbrica e i tumori sviluppati ai polmoni, alla laringe e allo stomaco. Sentenza però ribaltata dalla prima sezione penale della Corte d’Appello di Roma nel 2013: assolti perchè il fatto non sussiste. Michael Claude Murphy, Antonio Corsi e Adalberto Muraglia non sono colpevoli delle morti di cui erano accusati. Per uno solo degli ex dirigenti Goodyear, Perdonato Palusci, la condanna di primo grado, a un anno e sei mesi, è stata confermata, ma legata a una soltanto delle parti civili coinvolte nel processo. Mentre altri due tronconi processuali sono in essere, uno a Roma e l'altro a Latina. «Io quello che dovevo fare, l'ho fatto - chiude amaramente Agostino Campagna - Ho partecipato a 70 udienze a Latina, una decina a Roma, ho raccolto testimonianze e parlato con i dirigenti sindacali. Ma più di questo non posso fare. Ora sta alle istituzioni prendere in mano questa situazione e portarla nelle sedi che contano. Altrimenti si continuano a fare due torti: una ai morti, e una ai vivi. Perchè la bonifica delle macerie della fabbrica e di tutta la zona non è stata ancora fatta. Bisogna fare giustizia, una volta per tutte».