di
Andrea Degl'Innocenti
16-02-2012
Il governo Monti annuncia di voler imporre l'Imu (ex Ici) anche sugli immobili ecclesiastici che non siano dediti esclusivamente al culto. L'imposta garantirebbe un gettito annuo fino a 2 miliardi di euro. Sull'altro fronte la Santa Sede sembra intenzionata ad abbandonare la strategia collaborativa e si mostra su posizioni ostruzioniste per quanto riguarda la trasparenza fiscale.
È un intreccio fiscale dalla trama fine, quello che lega l'Italia al Vaticano. Un gioco di interessi bilanciati, cui ad ogni mossa ne corrisponde un'altra. Da un lato il governo Monti attacca sulle imposte e impone il pagamento dell'Ici/Imu sugli edifici di proprietà della chiesa in cui si svolgano attività commerciali – misura che come vedremo è solo apparentemente ostile agli interessi della Chiesa. Sull'altro fronte, la Santa Sede si arrocca nell'ostruzionismo, e sembra sempre più intenzionata a fare marcia indietro sulle norme per la trasparenza fiscale.
Ma procediamo con ordine. L'attacco del governo Monti agli immobili ecclesiastici prende le mosse nell'ambito di una procedura di infrazione per violazione della concorrenza ed illegittimo aiuto di stato aperta dalla Commissione europea nell'ottobre 2010. Fu un esposto del partito radicale a portare la questione all'attenzione dell'Europa. Lo stato italiano era accusato di favorire illegittimamente il Vaticano.
Già a metà marzo, Monti aveva annunciato al Cardinal Bertone la decisione presa dal governo, dovuta alla constatazione che sull'Imu non potevano esserci esenzioni alla normativa europea. Ieri la conferma, avvenuta tramite una lettera inviata dallo stesso Monti al vicepresidente della Commissione europea, Joaquin Almunia, in cui si certificava l'intenzione di presentare al Parlamento “un emendamento che chiarisca ulteriormente e in modo definitivo la questione”.
La decisione del governo, che a prima vista appare ostile alla Santa Sede, potrebbe in realtà rivelarsi un toccasana per le casse vaticane. Infatti, secondo un dossier portato da un equipe di tecnici sulla scrivania di Monti, la Commissione europea sembra intenzionata a seguire la linea dura con la chiesa. Via il regime agevolativo e avanti con l'obbligo di recuperare l'imposta non pagata dalla Chiesa a partire dal 2005. Insomma, se la sentenza, attesa a maggio, rispetterà le premesse, la Chiesa potrebbe trovarsi a pagare ben 7 anni di Ici arretrata. Se invece l'emendamento verrà approvato in tempo breve l'intera procedura d'infrazione dovrebbe arrestarsi, e la Santa Sede non dovrà pagare alcun arretrato.
La norma riscrive i criteri per cui è prevista l'esenzione dal pagamento dell'imposta municipale unica (Imu, ex Ici). L'esenzione farà riferimento solo agli immobili nei quali si svolge in modo esclusivo un'attività non commerciale (gli edifici di culto, gli oratori, ecc.). Verranno invece abrogate tutte quelle norme che prevedono l'esenzione per immobili dove l'attività non commerciale non sia esclusiva, ma solo prevalente.
L'esenzione, poi, sarà limitata alla sola frazione di immobile nella quale si svolga l'attività di natura non commerciale. Sarà infine introdotto un meccanismo di dichiarazione che renderà chiara la natura dell'immobile, in seguito all'individuazione del rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali esercitate al suo interno.
Ma quanto guadagnerà lo stato italiano dall'operazione? Riguardo a quest'ultimo elemento le stime sono incerte. 500-700 milioni annui secondo l'Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), 2,2 miliardi secondo l'Ares (Associazione ricerca e sviluppo sociale).
Ad ogni modo il Vaticano non sembra intenzionato a facilitare il compito dello stato italiano, per quanto riguarda la riscossione delle imposte. In questo senso è significativa l'inchiesta portata avanti dal Fatto Quotidiano, che ha pubblicato alcuni documenti privati che dimostrano come la Santa Sede stia passando da una strategia collaborativa ad una decisamente più ostruzionista.
Se nel dicembre del 2010 Papa Benedetto XVI aveva introdotto una normativa antiriciclaggio - entrata in vigore nell’aprile scorso – che apriva alle autorità vaticane e italiane i conti dello Ior (Istituto per le opere di religione), adesso i documenti pubblicati dal Fatto fanno emergere già la volontà di una retromarcia.
La normativa del 2010 era volta ad attuare gli impegni assunti dalla Chiesa in sede europea per aderire agli standard del Comitato per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali (Moneyval). Grazie ad essa le autorità antiriciclaggio avrebbero potuto guardare cosa accadeva nei conti dello Ior anche prima dell’aprile 2011.
Il Vaticano, che fino ad allora si era da sempre comportato alla stregua di un paradiso fiscale, cercando ogni modo per rendere più difficile la tracciabilità dei propri movimenti finanziari, sembrava finalmente intenzionato a voltare pagina.
Invece, ben due documenti riservati testimoniano che la Santa Sede si sta orientando per non concedere l'autorizzazione alle indagini. Un netto passo indietro sul fronte della trasparenza, ed il chiaro segno che la politica fiscale vaticana sta cambiando nuovamente rotta.
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