Il recente rapporto dell’Agenzia europea per l'Ambiente (EEA) “Seafood in Europe; a food system approach for sustainability” lancia l’ennesimo allarme sull’attuale sistema alimentare, focalizzando l’attenzione sul pesce che arriva sulle nostre tavole.
Con la continua crescita della popolazione globale e dei redditi di alcune fasce della popolazione, il fabbisogno alimentare, di cui il pesce è parte, è in costante aumento.
Dai dati a disposizione dell’EEA emerge che gli europei preferiscono il pesce non d'allevamento (il 75%) e che il consumo medio di pesce pro capite nell’Unione Europea è di circa 22 chili all’anno, secondo solo a quello dell’Oceania con 26,5 chili. Per soddisfare questa domanda, l’UE importa il 55% del pesce e dei frutti di mare ed è il più grande importatore di pesce e prodotti ittici di tutto il mondo, con una quota di mercato pari al 20% del totale delle importazioni mondiali tra il 2013 e il 2015.
Ma quanto costa questo consumo in termini di sostenibilità? Il rapporto rivela che «Attualmente, la maggior parte delle zone di pesca sono o completamente pescate (58%) o sovrasfruttate (31%). Nei mari europei, la pesca eccessiva resta alta: il 50% degli stock ittici nell’Oceano Atlantico nord-orientale e del Mar Baltico e oltre il 90% nel Mediterraneo e nel Mar Nero sono stati pescati al di sopra del loro rendimento massimo sostenibile».
A livello mondiale, mentre si stanno raggiungendo i limiti naturali di sfruttamento per gli oceani, l’acquacoltura sta prendendo sempre più piede, tanto che già nel 2014 si è consumato più pesce allevato che pescato.
Secondo gli autori, le uniche vie percorribili per garantire in futuro la sostenibilità a lungo termine delle attività di pesca sono quelle del rispetto dei livelli sostenibili di pesca e dell’implementazione di reti di Aree marine protette.
Le valutazioni attuali tendono a concentrarsi sull’impatto ambientale della pesca e dell’acquacoltura sugli ecosistemi marini europei o sulla performance economica dell’industria ittica, ma secondo l’EEA ci sono grosse lacune informative e di conoscenza perché le dinamiche del mercato mascherano i segni vitali degli ecosistemi, come, ad esempio, la condizione degli stock ittici locali. Colmare queste lacune non richiederebbe necessariamente grandi investimenti, ma solo analizzare con maggior attenzione i dati provenienti dalla politica comune europea sulla pesca.
Peraltro la situazione dell'inquinamento, oltre che dello sfruttamento, di mari e oceani è a livelli tali di allame da indurre la Commissione europea e l'Alto rappresentante dell'UE a definire un programma comune per il futuro degli oceani, proponendo 50 azioni per cercare di diminuire la pressione sulle acque del nostro pianeta. Il documento International ocean governance è del novembre scorso ma sono in molti a ritenerlo non sufficiente.
Già nel luglio scorso, per la precisione il 13, i consumatori europei hanno toccato il cosiddetto Fish Dependence Day, osia hanno esaurito le “scorte” di pesce locale e hanno cominciato a consumare quelle provenienti da oceani lontani, soprattutto dai paesi in via di sviluppo.
Negli ultimi tre decenni, il Fish Dependence Day europeo è arrivato ogni anno sempre prima: «Trenta anni fa – spiega il WWF – l’Europa era in grado di soddisfare la domanda di pesce pescandolo in acque europee fino a settembre od ottobre. Durante lo stesso periodo di tempo, il problema globale di pesca eccessiva è’ aumentato».