A pochi giorni dalla diffusione dei risultati di due importanti studi sulla gestione delle scorie, l'esplosione di un incendio in un sito di trattamento di rifiuti radioattivi a Marcoule, in Francia, ripropone con urgenza gli interrogativi circa la sicurezza delle procedure di stoccaggio e smaltimento.
Nella mattinata di ieri un incendio all'interno di un sito di trattamento di scorie nucleari nel sud della Francia (a Marcoule, situata a 242 km da Ventimiglia, 257 da Torino, e 342 da Genova, ndr) ha provocato la morte di un uomo e il ferimento di altre quattro persone. L'incidente è stato provocato dall'esplosione di un forno che serviva a fondere rifiuti radioattivi metallici.
L'Ente nazionale per l'energia elettrica, Edf, si è affrettato ad escludere la fuoriuscita di materiale radioattivo e a precisare che si tratta di un incidente industriale e non nucleare.
L'impianto comunque è impiegato per la produzione di un combustibile nucleare e si trova all'interno di una centrale contenente tre reattori, per cui il Commissariato per l'energia atomica francese ha subito prelevato campioni di aria e suolo da sottoporre ad analisi, i cui risultati sono attesi per oggi.
Anche la Protezione civile e l'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, stanno lavorando per verificare eventuali rischi sul territorio italiano.
Nella speranza che le prime dichiarazioni delle autorità vengano confermate, l'incidente non manca di sollevare preoccupazioni circa la sicurezza degli impianti nucleari e costituisce l'ennesima occasione per riflettere sui rischi connessi alle procedure di trattamento, stoccaggio e isolamento delle scorie.
Proprio in questi giorni sono stati divulgati, tra l'altro, i risultati di due progetti di ricerca finanziati dalla Commissione europea, GLAMOR e MICADO, che hanno indagato l'affidabilità dei modelli di deposito delle scorie in formazioni geologiche profonde, una soluzione considerata tra le più sicure nel lungo termine, ma che non smette di rivelare nuove variabili da considerare.
In Europa si ricorre generalmente al deposito in formazioni di granito, argilla o sale, di cui gli esperti teorizzano la stabilità fino a decine di milioni di anni, anche perché sarebbero caratterizzate da un movimento delle acque sotterranee molto lento.
Si tratta di premesse non unanimemente condivise, anche in virtù delle infiltrazioni di acqua verificatesi in alcuni di questi siti - il più famoso è quello di Asse, in Germania, dove sono state riscontrate perdite di sostanze radioattive risalenti alla fine degli anni Ottanta.
Nel 2010, tra l'altro, una ricerca di Greenpeace ha individuato una serie di altri fattori di possibile contaminazione, da terremoti a reazioni chimiche impreviste.
Negli ultimi 30 anni la ricerca internazionale ha generato imponenti basi di dati sperimentali attraverso la simulazione delle interazioni a lungo termine tra le acque sotterranee e diversi tipi di rifiuti radioattivi vetrificati per sviluppare delle procedure di modellazione descrittiva e predittiva il più possibile precise.
Si è però sempre trattato di esperimenti a breve termine, insufficienti per dedurre informazioni certe circa la conservazione dei rifiuti solidi nelle acque freatiche nel più lungo periodo.
In linea teorica, infatti, questi siti sono caratterizzati da un'evoluzione geologica molto lenta, ma la presenza delle scorie disturba il sistema tanto che il ritorno a condizioni naturali può richiedere centinaia di migliaia di anni.
I due progetti hanno fornito nuovi elementi utili per stimare la capacità del vetro di fungere da barriera rispetto all'ambiente esterno nel tempo e per individuare i siti da destinare allo smaltimento.
I risultati sono comunque provvisori e la stessa European Nuclear Society, che li ha divulgati sul proprio sito web, si è mostrata molto cauta in merito alla spendibilità di queste acquisizioni per accrescere la sicurezza dei depositi.
Al bando, quindi, ogni facile ottimismo. In materia di nucleare incertezze e rischi non sono mai sufficientemente circoscrivibili.
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