Un nuovo “dilemma del prigioniero” tra immobilità esistenziale e desiderio di cambiamento, tra zone di comfort e tentativi di fuga: alcune riflessioni per ripensare l’atteggiamento che abbiamo verso noi stessi e verso il nostro progetto di vita.
Un paio di sere fa a Milano presso la sede di Vivere la Vela ho finalmente incontrato Simone Perotti, il quale, dopo aver scelto il downshifting, ha sempre meno bisogno di presentazioni. Dopo una ventina d’anni di brillante carriera nel campo della comunicazione ha scelto una vita (la vita?) fuori dalle regole, non scandita dai rassicuranti rintocchi economici il 27 di ogni mese, magari anche più di dodici volte all’anno.
Venni a conoscenza della sua esistenza quando un anno e mezzo fa lessi su Corriere.it un articolo su di lui intitolato Guadagnare meno per vivere di più. Fin da allora la sua storia mi incuriosì e fece nascere (o rinascere?) in me un tentativo, anche solo a livello di pensiero, di emulazione. Ricordo che stampai quel pezzo, lo lessi più volte, addirittura evidenziai le frasi che mi colpirono di più. E di recente, durante un repulisti domestico, quell'articolo mi è capitato nuovamente tra le mani e mi sono detta: “Sono ancora qua, nulla è cambiato: brava!”.
Capita sempre più spesso di dire: “Basta, mollo tutto e me ne vado su un’isola deserta”. Ma questo impulso che nasce così forte e impetuoso spesso si arena o rimane lungamente sopito per via di meccanismi che la mente abilmente innesca, probabilmente per non uscire da quella che viene definita “zona di comfort”: la zona che non ci piace poi molto ma che ben conosciamo. Ed ecco allora che, dopo sogni gloriosi di libertà, ritorniamo all’ovile della nostra mente e della vita che conduciamo, buoni e mansueti come agnelli, quasi stupendoci di come abbiamo potuto anche solo pensare di mollare tutto. Siamo come drogati dalle nostre stesse sostanze, un veleno interno. Immobilizzante ed euforizzante, generatore di stati schizofrenici.
Ho poi letto i suoi libri Adesso Basta e Avanti tutta. Divorati. Mi riconoscevo in ogni riga, un alternarsi di sorrisi compiaciuti e amari sospiri. Ne consiglio la lettura a tutti.
Tuttavia, nelle mie riflessioni sono arrivata ad una strozzatura concettuale, ancora viva e presente all’incontro, anzi acuita da esso. Simone ha cominciato il suo intervento citando il De Brevitate Vitae di Seneca: “Non fate caso di quanto tempo è trascorso: continuate a perderne come da una provvista colma e copiosa, mentre forse proprio quel giorno è l’ultimo”. Parole tanto dure quanto incontestabili. Dall’altra parte, Simone evidenzia onestamente e chiaramente i problemi pratici legati al cambiamento e all’implementazione dello stesso. Ci vogliono anni per cambiare. A lui, ce ne sono voluti dodici dal momento in cui si è detto “così non va”.
Ecco, qui si arriva al nodo, apparentemente inestricabile, un rompicapo. Il punto dove filosofia e pragmatismo si incrociano. Come fare a conciliare una filosofia così nobile, semplice e potente come quella enunciata da Seneca con la strategia pratica e concreta che ci richiederebbe più o meno una decina d'anni della nostra vita (fortunati esclusi) per realizzare il nostro progetto di libertà?
In altri termini: come stare tranquilli e mantenere l'equilibrio quando ci ritroviamo imbottigliati nel traffico e nello smog mentre guardiamo attraverso i finestrini persone imbronciate o attaccate spasmodicamente ad un cellulare o quando facciamo un lavoro che non ci assomiglia oppure che ci schiaccia sapendo che, puro realismo, quell’attimo potrebbe appartenere all'ultimo giorno di nostra vita? È agghiacciante, da brividi! Una condizione mentale dura, che può portare alla rassegnazione più totale o alla fuga compulsiva.
Avrei voluto porgli tale quesito durante l'incontro, chiedergli aiuto, ma ho preferito rifletterci, dormirci su. Le risposte sono spesso dentro di noi. Anche Adesso basta dà indicazioni in merito: però un conto è leggere, un altro è comprendere.
Facendo mente locale e cercando di pensare razionalmente, ad un certo punto mi è parso di essere tornata al corso di microeconomia quando studiavo la teoria dei giochi. E così è spuntata fuori, per gioco e con un simpatico gioco di parole, una formula moderna e rivista del “dilemma del prigioniero” dove si combina la dimensione “durata della vita” (muori subito o muori dopo) e “scelta di lavorare al progetto di libertà” (sì oppure no). Ci ritroviamo a chiederci cosa ci convenga fare – se scegliere di lavorare al progetto di libertà oppure no - in caso di informazione incompleta: non sappiamo infatti quando moriremo.
Nuovo “dilemma del prigioniero”
Durata della vita - Scelta di lavorare al progetto di libertà
1ª soluzione: Non lavori al tuo progetto di libertà e muori subito
2ª soluzione: Non lavori al tuo progetto di libertà e muori dopo
3ª soluzione: Lavori al tuo progetto di libertà e muori subito
4ª soluzione: Lavori al tuo progetto di libertà e muori dopo
Da questo modellino è facile comprendere come la soluzione che conviene sia quella di lavorare al progetto di libertà comunque. Alcuni (come me fino a qualche giorno fa) tendono a pensare che il peggiore scenario sia “lavori al tuo progetto di libertà e muori subito” con relativa esclamazione “ma che sfiga!”. Il vero peggior scenario, invece, è “non lavori al tuo progetto di libertà e muori dopo”, la soluzione comoda, sicura, quella del rassegnato, che si è visto passare tutta la propria vita dinnanzi senza combattere per i propri sogni.
Colui che per paura di morire subito (o di vivere?) si è immobilizzato davanti all'esistenza oppure colui che si è ammalato di una gravissima infezione mentale: la “procrastinatite”, la tendenza cronica a procrastinare. Sia chiaro: Simone si rivolge a chi lavora e vorrebbe smettere, non a chi adora il proprio lavoro.
L’alternativa a tutto ciò, a questi quattro riquadri, è fuggire: mollare tutto mentre si è nel traffico, mentre si fanno gli straordinari, dimettersi dall'oggi al domani. Senza progetti, senza strategia, senza provviste, senza visione e senza missione. Fuggire è un po’ fare come coloro che corrono nudi in mezzo al campo durante una partita di calcio: hanno il loro momento di celebrità ma vengono fermati in pochi minuti. È un po’ come saltare oltre un precipizio incrociando le dita, sperando di atterrare sicuri, al massimo slogandoci una caviglia. Non sto facendo terrorismo psicologico affermando che dobbiamo calcolare tutto maniacalmente: sono sostenitrice di quel pizzico di sacrosanta follia per andare al di là.
Abbiamo tuttavia delle grandi responsabilità nei nostri confronti e quindi il dovere morale di essere saggi. Per superare una gola, per oltrepassare un fiume in piena abbiamo bisogno di un ponte. Non siamo bionici, non possiamo saltare per una distanza superiore ai nostri limiti. Rischiamo di farci molto male. Però possiamo scegliere.
Possiamo scegliere di stare per tutta la vita sulla riva che non ci piace, perché non abbiamo molta voglia di costruire il ponte o perché, durante il progetto e la costruzione del ponte, potremmo morire quindi… che spreco! O ancora dire “ci penso domani”. Rimaniamo fermi e ci lamentiamo ogni giorno di quanto sia orribile la riva su cui viviamo. È vero: la costruzione di un ponte comporta calcoli, materiale e tempo nonché perseveranza e precisione. Ma non abbiamo un'altra via: per uscire dal tunnel dobbiamo andare verso l’uscita e prima ci incamminiamo prima ne usciamo.
Nel dubbio relativo al quando la nera signora farà la sua comparsa è ragionevole e conveniente agire e lavorare per la nostra libertà. Dobbiamo farlo se vogliamo oltrepassare il torrente in piena. Solamente pochi riescono a guadare il fiume coi calzoni arrotolati sul polpaccio. Beati loro! Sono coloro che nascono con la camicia, che possono mantenere, coi patrimoni che posseggono, le successive quattro generazioni di discendenti, che hanno vinto alla lotteria. Ma badate, queste ultime sono condizioni necessarie ma non sufficienti: saranno in grado di affrontare la sobrietà, la frugalità e la solitudine che spesso una scelta del genere comporta? Anche tutto questo rientra nella libertà.