Il 4 gennaio scorso esce su Slowfood.it a firma di Jacopo Ghione l'articolo dal titolo "L'inganno dell'hamburger vegano".
L'assonanza, si sa, è questione di metrica. Una rima imperfetta, una parziale identità di suoni, due parole che suonano in modo simile anche se solo in parte. Chi la usa, però, non lo fa casualmente e, anzi, rimango ammiratissima quando quei suoni in qualche modo si rincorrono e riescono ad evocare un'immagine che quasi si sovrappone al messaggio che si vuole far passare. Il titolo dell'articolo in questione, raffinatissimo a mio parere, gioca con le parole “inganno” e “vegano” che vengono poi, ad arte secondo me, anche ripetute a più riprese nel testo.
L'autore lo fa molto bene, niente da dire. E ci va pesante anche nelle righe successive: riferendosi al cibo vegano lo definisce “subdolo” (forse riferendosi inconsciamente, ma neanche tanto, alla concorrenza sul mercato?), “facile” e con la “pretesa di essere salutare”. E ancora: “ingannevole”, “senza storia né radici”, “contrario alla nostra cultura gastronomica” e traditore (perdonate il gioco di parole) della nostra Tradizione. Attenzione, però, perché anche chiunque si azzardi a consumare del cibo vegano può essere accusato, egli stesso, delle stesse efferatezze. Il cibo a cui si riferisce l'articolo è quello che “scimmiotta” il vero cibo della tradizione e cioè quello fatto con la carne vera: prosciutti, salami e insaccati in genere.
Vorrei chiarire a questo proposito che, sul fatto che il cibo vegano cui si riferisce l'autore non sia salutare, sono assolutamente d'accordo. E, del resto, i vegani sono i primi a dirlo: se si vuole mangiar male lo si può far benissimo anche senza consumare cibi di origine animale. Si può eccedere tranquillamente in farine, zucchero, bibite gassate, cibi pronti e trasformati. Esattamente come si può farlo da mangiatori di carne. E, come sappiamo tutti, le conseguenze per la salute ci saranno prima o poi. Ma questo non c'entra affatto con il veganesimo che è, prima di tutto, un movimento etico e antispecista che rifiuta ogni prodotto, alimentare e non, fondato sullo sfruttamento degli animali. L'aggettivo “subdolo” quindi non ha ragione di essere perché si conoscono molto bene gli ingredienti degli insaccati, dei formaggi e dei preparati vegani in genere: glutine a profusione, soia in quantità esagerate, sale e altri additivi che, di certo, bene non fanno. Ma i mangiatori di carne possono davvero pontificare su ciò che fa bene e ciò che fa male? C'è chi pensa, anche tra autorevolissimi medici ed esperti italiani e internazionali, che la carne, di qualunque tipo e in qualunque forma, sia tutt'altro che salutare. Un salume pieno di grasso e di sale e fatto con la carne tritata di un animale morto da mesi è davvero più sano di uno fatto col muscolo di grano?
Quali saranno le ragioni che spingono chi si trova a scegliere, a un certo punto della sua vita, un'alimentazione basata sull'imitazione di forme, sapori e gusti dei piatti di carne? Come mai si sente la necessità di continuare a mangiare un salame, un formaggio, una bistecca dal momento che si è scelto di non farlo per una ragione etica? Per tante ragioni: il desiderio fortissimo di sentire quella stessa consistenza sotto i denti, quel sapore, quell'abitudine che somiglia tanto a una dipendenza soprattutto culturale, ma non solo, che ci accompagna da quando siamo nati e che ci ha fatto pensare per anni che se non mangiamo bistecche e hamburger non ci sentiremo sazi o ci mancheranno le proteine necessarie. Quindi, anche se non lo si ammetterà facilmente, il responsabile di questo fiorire di prodotti simil-carne, è molto probabilmente, seppure in modo indiretto, proprio la Tradizione che si vuole difendere.
La Tradizione, inoltre, di cui ci piace tanto parlare e come fosse un sacrilegio contestarla o metterla in discussione, è responsabile del massacro di milioni di animali ogni anno. I prosciutti e i salami di cui si parla nell'articolo come un patrimonio da salvaguardare e messo in pericolo dai prodotti vegani sono fatti con la carne di esseri senzienti tenuti in schiavitù, maltrattati, sfruttati fino allo stremo e infine barbaramente uccisi in migliaia di allevamenti lager. Lo si dica, questo. La Tradizione, come sappiamo ormai tutti, non è così innocente neppure a livello di conseguenze ambientali: dalle emissioni causate dall'allevamento di bovini al costo enorme in risorse, acqua in primis, del singolo chilo di carne.
Se si trattasse di una questione puramente linguistica e di un fastidio, diciamo così, esclusivamente purista, allora darei perfettamente ragione all'autore dell'articolo. Ma la cosa arriva dalle pagine di Slowfood.it e non può trattarsi soltanto di una questione da Accademia della Crusca.
In conclusione, continua il testo, tutto questo “è dannoso per gli allevatori che con il loro lavoro si impegnano per promuovere un prodotto di qualità”. Il punto, quindi, in ultimo, è probabilmente questo. Forse si teme che le persone, capitando distrattamente davanti al bancone degli insaccati si ritrovino a voler provare, perché no, quel tal salume o quello strano burger? E che poi magari, sempre per caso, inizino a consumarlo regolarmente e di conseguenza anche a informarsi un po' di più su cosa ci sia dietro la filiera dei nostri prodotti tradizionali e di cosa si intenda esattamente per qualità??
Lungi da me voler difendere i cibi trasformati, preparati a imitazione di qualcosa che non dovremmo affatto imitare, precotti o pronti da consumare, di qualunque tipo siano: a base di glutine, di soia o altro ancora. Si tratta di prodotti spesso di scarsa qualità, poco salutari e non necessari per un'alimentazione equilibrata. Tuttavia, non mi pare che, al momento, chi difende la tradizione della nostra cultura gastronomica possa ignorare che, se vogliamo parlare di salute, quella stessa tradizione risulta ormai ampiamente e autorevolmente messa in discussione. Le tradizioni basate sulla crudeltà, l'indifferenza e il profitto come unico obiettivo, si riveleranno prima o poi insostenibili sotto ogni punto di vista: etico, economico e ambientale.
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