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Ogni anno 15 milioni di animali selvatici e 40 milioni di animali da allevamento vengono scuoiati per il loro manto ed i loro corpi vengono gettati via come spazzatura. Un mercato di morte che non si manifesta più sotto forma di pelliccia intera, ma attraverso bordi e guarnizioni. Tra le ultime iniziative per un abbigliamento fur free a Roma c’è stata l’azione delle ‘ecocavernicole’.
“Ma oggi le pellicce non le mette più nessuno!”,“serve fare manifestazioni contro le pellicce? Ormai chi le mette più?”. Queste sono le osservazioni più comuni delle persone, come prima reazione di fronte ad un gruppo di manifestanti. È vero, la pelliccia intera a stento sopravvive e oramai sono in poche a metterla, la si vede per lo più addosso a qualche nonna, o spesso rimpiazzata dalla foggia corta.
Eppure 15 milioni di animali selvatici e 40 milioni da allevamento vengono scuoiati ogni anno esclusivamente per il loro manto ed i loro corpi gettati via come spazzatura. Catturati, o peggio fatti nascere in cattività, reclusi in condizioni terribili – arrivano a tentare il suicidio e sopprimono i loro cuccioli - uccisi e poi scuoiati spesso mentre sono ancora coscienti…
Un mercato di morte e sofferenza che non si manifesta più sotto forma di pelliccia (intera), ma di bordi e guarnizioni. Cappucci, risvolti e polsini di cappotti, borse, stivali, gilet, sciarpe e scialli: quasi ogni tipologia di capo di abbigliamento sembra debba contenere un inserto di pelliccia animale. Ed ecco che, così ritagliate, colorate, camuffate, inserite in ogni capo o accessorio, le pellicce ancora sopravvivono, eccome. Hanno solo cambiato aspetto, assumendo sembianze più anonime e ‘innocue’, ma la sostanza è sempre quella: pelle di animale.
E se grazie a questo escamotage ogni capo ne contiene una quantità minima, d’altro canto questi inserti in pelliccia vengono indossati praticamente da tutti, spesso anche da totalmente ignari ‘animalisti’. Donne, uomini, bambini, anziani e persino neonati: sul passeggino li vediamo letteralmente affogati in un cappuccio più grande di loro, con la folta bordura in pelliccia di procione.
Per chi sa riconoscere a occhio nudo l’autenticità della pelliccia e conosce bene quali agghiaccianti torture abbiano patito i procioni (la specie comunemente usata per i bordi dei cappucci), legittimi proprietari, è ogni volta uno shock vedere un bimbo, simbolo di innocenza, indossare suo malgrado quell’orrore.
Il mercato odierno quindi, che vive proprio sulla moda degli inserti di pelliccia, è concettualmente ancora peggiore di quello di una volta (quando la pelliccia serviva anche per scaldare) perché ha un fine puramente estetico. Milioni di animali uccisi solo per bordare delle giacche, delle borse o degli stivali!
Come fare per contrastare tutto ciò? L’informazione è sempre la base sulla quale si radica la consapevolezza e poi la scelta. Tra le ultime iniziative per un abbigliamento fur free a Roma c’è stata l’azione delle ‘ecocavernicole’, due volontarie che hanno inscenato una sorta di rituale purificatorio nell’atto di disfarsi della pelliccia animale come condanna della sua crudeltà.
Travestite da cavernicole – con finte pelli e pellicce, parrucche e trucco da troglodite - per imitare la bruttezza interiore di chi indossa, ancor oggi, macabre pellicce vere, e per esaltarne l’aspetto anacronistico, si sono gradualmente disfatte dei simulacri sintetici delle pelli animali per passare con un veloce cambio d’abito all’aspetto di donne civilizzate, come si confà ai nostri giorni, in cui il mercato del tessile può offrire materiali alternativi cruelty free, bellissimi, caldi e realmente eleganti.
Nel reportage dell’iniziativa è emblematica l’intervista ad una scolaresca; già a quell’età, i bambini sembrano aver assimilato l’idea dell’animale come oggetto utile che serve ad accontentare l’uomo: per fornirgli una pelliccia più o meno pregiata (ermellino) o un po’ di affetto e compagnia (cane).
È altrettanto evidente tuttavia come sia facile portarli, attraverso il ragionamento, a esprimere ciò che veramente pensano, cioè che l’animale, di qualunque specie esso sia, merita rispetto e non deve essere ucciso.
La pelliccia pone una questione ambientale oltre che etica. È infatti un capo ad alto impatto ambientale a causa della sua filiera che partendo dall’allevamento, fino alla concia e al confezionamento, consuma molta energia, acqua e cibo.
Secondo i dati dell' European Fur Breeders Association, per l’alimentazione degli animali da pelliccia vengono impiegate enormi quantità di sottoprodotti di origine animale; solo negli stati dell’UE ammontano a 365.000 tonnellate di pesce e sottoprodotti dell’industria del pesce e 62.000 tonnellate di sottoprodotti della macellazione. Cibo che potrebbe essere utilizzato ad esempio (essendo comunque un sottoprodotto) per gli animali domestici e randagi, anziché essere sprecato per allevare visoni o altri animali da allevamento.
Basti pensare che la sola Finlandia importa annualmente - da Svezia, Norvegia, Danimarca, Scozia, Irlanda e Olanda - carne e pesce destinati agli allevamenti di animali da pelliccia per 36 milioni di euro e destina 2500 tonnellate di patate e di soia per allevare animali da pelliccia!
Facendo qualche calcolo si può dire che approssimativamente per una pelliccia di visone servono circa 3,3 tonnellate di alimenti e per una di volpe una tonnellata.
Poi ci sono l’energia e l’acqua utilizzate per il funzionamento degli allevamenti (congelamento cibo, pulizia,ecc) e lo scarico indiscriminato di deiezioni che contaminano il terreno e i fiumi, aumentando la percentuale di fosfati e nitrati.
Successivamente, durante la concia, vengono utilizzati, come noto, trattamenti chimici con acidi molto aggressivi, sostanze tossiche e cancerogene come ad esempio la formaldeide, il cromo e la naftalina che possono causare gravi patologie (disordini nervosi, infezioni ed irritazioni della pelle e tumori). Inoltre le concerie riversano nell’ambiente un carico inquinante sia chimico che biologico ed immettono nelle acque notevoli quantità di cromo, N2O (monossido di azoto) e NH3 (ammoniaca).
Intanto arriva una buona notizia dal Parlamento Europeo, che ha approvato il nuovo regolamento sull’etichettatura dell’abbigliamento stabilendo che i contrassegni informativi dovranno riportare obbligatoriamente - a partire dall’8 maggio 2012 - la dicitura “Contiene parti non tessili di origine animale” per indicare l'uso di pellicce o pellame nei prodotti tessili e qualunque materiale derivato da parti animali. Tuttavia ci sarà tempo fino al 9 novembre del 2014 per smaltire le giacenze che non avranno quindi l’obbligo della nuova etichetta.
Ancora nessuna garanzia potremmo avere invece per la tracciabilità. Ricordiamo infatti che un Made in Italy può significare tutto e niente dal momento che tale dicitura si può apporre anche se in Italia è stata completata solamente la fase finale della filiera di produzione (ad es. il confezionamento). In altre parole, come avviene nella maggior parte di casi per i bordi delle giacche, l’animale viene allevato e ucciso in Cina, da dove si esporta nel mondo la pelliccia semilavorata. Nel paese di destinazione poi si confeziona il capo inserendovi la pelliccia, sulla cui origine quindi nulla si può sapere.
Tuttavia, al di là della tracciabilità, l’aspetto più importante rimane senz’altro il diritto del consumatore di sapere se un capo è cruelty free o meno, ossia se la parte in pelliccia che contiene è di origine animale oppure sintetica.
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