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12-08-2013
In questa intervista – tratta dal settimanale francese Le Point e curata da Dominique Dunglas – Carlo Petrini ci mette in guardia dalle storture del nostro tempo sul cibo e sulle abitudini alimentari e ci racconta come nascono i principi di Slow Food, ormai presente in 163 Paesi.
Che cosa non va nel nostro modo di alimentarci?
L’industrializzazione ha fatto precipitare la qualità dei prodotti e non rispetta né la biodiversità né gli ecosistemi. L’agricoltura consuma troppa acqua e noi mangiamo troppa carne. Ma il problema più grande è la perdita del valore simbolico dei cibi. Sono diventati commodities, beni di consumo senza anima.
Come Slow Food agisce sul territorio?
I tre princìpi di Slow Food e Terra Madre, la nostra rete presente in 163 Paesi, sono buono, pulito e giusto. Il buono... va da sé. Il pulito: rispettare gli equilibri della Terra. Il giusto: giustizia sociale per gli agricoltori che stanno per scomparire ovunque. Se l’ottimo riso che stiamo mangiando è stato raccolto da lavoratori in nero sfruttati come schiavi, questo mi disgusta.
Non era Slow Food agli inizi un club di gastronomi?
Slow Food è nato nel 1989 nel foyer dell’Opéra-Comique di Parigi, non lontano da dove è vissuto Brillant-Savarin. Allora si chiamava il Movimento internazionale per la tutela del diritto al piacere. È vero che noi eravamo sulla gastronomia pura. Ma oggi il solo ritorno ostentato alla tradizione culinaria non è altro che il lato opulento e autoreferenziale della mercificazione del cibo. Una pornografia alimentare. Questo mi rappresenta solo una mortificazione dei sensi! Chef come Marc Haeberlin o Michel Bras sono d’accordo con noi.
Siete più vicini a José Bové o a un movimento come Caccia, pesca, natura e tradizioni (Cnpt)?
Bové segue la sua logica, ma pensa che il piacere alimentare sia una faccenda da snob. La Cnpt ha spesso ragione, ma deve comprendere che bisogna difendere tutti i contadini, compresi quelli del Guatemala o del Burkina Faso.
La globalizzazione è l’origine di tutti i mali?
Dipende da come viene utilizzata. Fa paura quando si mette al servizio dei forti per strangolare i deboli. Ma Slow Food è frutto della globalizzazione. Noi non siamo contro l’industria alimentare, se essa è virtuosa. Lavazza, che ha una linea di caffè facente parte del commercio equo, è presente al Salone del Gusto. Detto questo, l’industria alimentare non ha bisogno di difensori. Io sono dalla parte dei deboli, dei piccoli.
Pro o contro gli Ogm?
Contro. Ci sono le incognite scientifiche. Ricordiamoci la vicenda della mucca pazza. Le culture Ogm necessitano di enormi quantità d’acqua e pongono il problema della proprietà delle sementi. E perché sacrificare l’aglio d’Albi, le lenticchie di Saint-Flour o il bue charolais a vantaggio di produzioni standardizzate e insipide?
Mangiare bene non è un lusso osceno quando 1.8 miliardi di persone sono sottoalimentate o muoiono di fame?
Bisogna uscire da questa schizofrenia. Il buono non genera carestia. Produciamo sulla Terra abbastanza per nutrire 12 miliardi di persone, ma ne sprechiamo la metà. A causa di una distribuzione pessima. A causa della sovrapproduzione, spesso dopata dai sussidi che fanno precipitare i prezzi portano alla distruzione degli stocks o, peggio, alla distribuzione gratuita per il terzo mondo. Questo meccanismo perverso uccide gli agricoltori locali. Basta aprire i nostri frigo: sono diventati delle tombe alimentari, delle anticamere di discariche pubbliche.
Quale abitudine alimentare individuale propone?
Mangiare è un atto “agricolo”. Il consumatore non deve essere più passivo. Deve sapere da dove vengono i prodotti, evitare quelli che provengono da lontano, rispettare le stagioni e saper pagare il giusto prezzo. Diventare una sorta di coproduttore.
Come siete percepiti in Francia?
La Francia gastronomica è sorda ai nostri messaggi. Non comprende che il nostro discorso è politico. La nostra critica del sistema è gastronomica, economica e sociale. Ma non si può ridurre del mondo per essere più comprensibili.
(*) Intervista a Carlo Petrini sul settimanale francese Le Point a cura di Dominique Dunglas.
Traduzione di Luca Bernardini