di
Dario Lo Scalzo
30-03-2011
"Sentirti solidale con la gente, ti dà anche tanta pace dentro". La storia di Padre Giovanni, un sacerdote missionario che ha lasciato l'Occidente per trasferirsi in Africa dove ha trovato una miniera di umanità e di valori.
In un mondo dove si costruiscono muri, si chiudono le porte, si fanno passaporti elettronici, non per fare passare meglio, ma per bloccare e chiudere, ebbene noi ci diamo da fare per aprire con finestre, ponti, spazi luce… - Giovanni Piumatti
'Storie invisibili' racconta la storia di Padre Giovanni, un sacerdote missionario che da 40 anni ha lasciato l’Italia e che ha ricevuto il regalo più grande della sua vita, l’Africa. Portatore del messaggio della semplicità, della condivisione e di una possibile unione tra i popoli, ci racconta il suo percorso di vita che si intreccia con quello della crescita di una comunità e di una civiltà, quella dei Waibrahimu nel cuore della foresta del Nord Kivu, in Congo.
In un momento storico di grandi trasformazioni provenienti dal continente africano, i racconti di Giovanni ci portano a riflettere su una doverosa apertura all’accoglienza come fondamento per la costruzione di una terra abitata da esseri umani tutti meritevoli di rispetto e dignità.
Se dovessi descriverti ai lettori che non ti conoscono cosa diresti in poche parole ? Chi è Giovanni?
Potrei paragonarmi ad un rametto di rosmarino. All’inizio, in un primo periodo della mia vita ero in un orto fertile, ero una pianticella che cresce. Una famiglia e un seminario. Poi c’è stato un 'dopo' che coincide con una data: giugno 1964, sono ordinato sacerdote. E così prima Pinerolo e successivamente l’Africa. Il rosmarino continua a maturare, offre aroma, continua a ricevere la linfa, e continua ad offrire aroma; il rosmarino, con la salvia, il lauro, il prezzemolo in un abbondante piatto di cibo sostanzioso e di certo non OGM. Solo dentro ad un buon cibo e con altri aromi il rosmarino è un ottimo ingrediente ed ha un significato.
Ecco perché, senza i gruppi e gli amici di Pinerolo, senza la gente di Lukanga e Muhanga e avendo sempre accanto gli amici d’Italia, mi chiedo chi sarebbe Giovanni? Ho ricevuto tanto. Quei primi due periodi del mio vivere mi hanno preparato alla vita, mi hanno fatto sognare, mi hanno trasmesso tanta voglia di buttarmi nella mischia, senza miraggi di soldoni o di carriera. Quei doni li ho ricevuti e condivisi.
A beneficio dei nostri lettori, raccontaci un po' più del tuo percorso di vita...
In breve, dopo gli anni meravigliosi trascorsi in Italia, erano i tempi del dopo concilio nel vivace '68, nel '71 decisi di partire per l’Africa con un gruppo misto, eterogeneo, nove trentenni entusiasti, pieni di buona volontà e di capacità, ma anche una buona dose di ingenuità, tanta teoria e diciamolo pure con una buona dose di 'orgoglietto' occidentale.
Era l’epoca di Kiringye e poi Lukanga in Congo. Motivati dal Vangelo ci sporcavamo le mani, pregavamo e riflettevamo insieme, immersi nella 'pasta umana' e nella scoperta dell'altro ma anche nell’utopia. Sono stati anni di grande fermento, di creatività e maturità con la realizzazione di tante opere. Poi nel 1994 una ventina di famiglie decise di emigrare dalla sovrappopolata missione di Lukanga in cerca di campi da coltivare. In quell’esodo alcuni italiani della comunità di Lukanga li hanno accompagnati. Ecco perché oggi ci troviamo a Muhanga, in foresta.
In quegli anni hai vissuto esperienze toccanti, forti con le quali sei cresciuto come uomo...
In tutti questi anni non ho vissuto necessariamente dei momenti eccezionali, ma tutto l’insieme è stato eccezionale e molto forte. Specialmente gli anni vissuti a Lukanga. È stata un mix di alcuni elementi, nessun elemento particolarmente carismatico, o spettacolare, ma è stata una miscela che si è combinata bene. Eravamo un gruppetto di italiani, un po' sognatori, con la voglia di vivere insieme in Africa un’esperienza valida, insieme a fratelli più bisognosi. Eravamo un gruppetto di giovani disponibili e focosi, gente senza pretese, gente cosciente che se si voleva ottenere qualcosa ci si doveva dare da fare e non piagnucolare.
Accennavi agli anni di fermento e creatività di Lukanga, in quel periodo avete davvero creato un 'nuovo mondo'
Mi guardo indietro ed è incredibile e straordinario quanto è stato realizzato: la strada di collegamento con gli altri centri abitati, un’opera gigantesca di 42 km realizzata dalla popolazione solo con pale e zappe, una microcentrale idroelettrica, delle sorgenti di acqua, un mulino, una scuola elementare, un dispensario, una maternità, uno studio dentistico ed un laboratorio e tante altre cose ancora.
Successivamente, nel '94, forti di quell’esperienza ci siamo spostati a Muhanga e così anche lì abbiamo rivissuto e messo in piedi quei progetti di sviluppo comunitario di base, ma stavolta con gente ormai rodata e soprattutto con un metodo in tasca. Difatti le opere di Muhanga sono state realizzate con una relativa e gioiosa rapidità. In tutto ciò, è stata la laboriosità della gente di Muhanga - sostenuta anche dalla solidarietà di tanti amici italiani - che ha reso possibile la concretizzazione di tanti sogni e di tante belle opere di sviluppo.
Durante i tuoi 40 anni di 'militanza' in una realtà umanitaria hai affrontato tante difficoltà e conosciuto delle realtà fuori dal comune, ti va di raccontarci?
Difficoltà grandi, sì ne ho incontrate parecchie, ma non penso di essere un caso raro. Da raccontare? Non saprei quali scegliere, per esempio sentirti sfondare la porta di notte con un calcio e da quella volta in avanti sentirti insicuro e ancora oggi tutte le notti sussultare ad ogni piccolo scricchiolio, sì non è stato facile; o le aggressioni e le violenze perpetrate dai militari.
Detto questo, vivere in Africa mi ha sempre fatto avvertire una sensazione gioiosa profondissima. Vivere in Africa significava sentire che stavo vivendo esattamente quel che vivono ogni giorno quelli che mi stanno attorno, silenziosi, indifesi; ma di 'loro' nessuno si accorge mai. Sentirti solidale con la gente, ti dà anche tanta pace dentro. Mi parli di difficoltà 'fuori dal comune'. Beh in realtà il 'fuori dal comune' lo osservo e lo vivo tutte le volte che rientro in Italia.
Quel modo di vivere, quei problemi, quei valori, tutto sembra fuori del comune. Non è uno stile di vita che puoi vivere in comune con tutti gli altri. Ci sono troppi esclusi, troppi che escludono gli altri; è fuori dalla comune gestione, fuori dalla comune condivisione, fuori dal comune buon senso. Qui in Africa la vita ha molti limiti, ma in fondo è vivibile in comune, insieme e del resto se ne accorgono gli ospiti occidentali che ci vengono continuamente a visitare. Quella vita lì, no.
Vivere quotidianamente in quel contesto non è cosa facile, ci racconti qualche aneddoto che possa farci capire come vivi la tua quotidianità?
A Lukanga tutte le sere dei bimbi venivano per le preghiere della sera. Da due settimane non riuscivo a muovermi dal letto per una forte sciatica. Quindi i bimbi venivano per la preghiera in camera invece che nel salone. Alla fine della preghiera e dei canti lentamente uno ad uno escono dalla stanza, ma cinque dei più grandi, ragazzine e ragazzini, restano, si avvicinano al letto ed una ragazza allunga la manina chiusa: “tieni”. Allungo anch’io la mano e lei mi passa un rotolino di soldi, un mazzetto di franchi congolesi, equivalenti quasi ad un dollaro. Un dollaro è la paga giornaliera di chi ha la fortuna di un lavoro salariato. “Prendili, così puoi comprare le medicine e guarire presto”.
Ogni volta che cerco di raccontare questo episodio, non riesco a finire quella frase, un groppo in gola mi blocca sistematicamente nonostante siano ormai passati più di vent’anni. Quei bambini avevano raccolto dei soldi per me ed alcune bimbe avevano anche cotto piccole frittelle da vendere al mercatino.
Cosa ti ha spinto ad intraprendete questo cammino di vita inconsueto?
La voglia di vivere. La voglia di essere attore, non essere assente, non essere solo spettatore. Voglia di scoprire. Mi vedevo, e mi vedo, davanti al Mondo. Tutte queste 'voglie' Qualcuno me le ha messe dentro e ancora non si sono spente. Non accetto che altri decidano della mia vita, tanto meno della vita di tutti. Anche se si tratta solamente di mezzo mattone, devo metterlo.
Non hai paura che aver portato un pezzo di occidente e civiltà in Congo, inteso secondo i nostri canoni, non rischi a termine di distruggere la cultura e le tradizioni locali?
È una grande domanda. Sicuramente mi sono portato dietro molto 'occidente', un po’ volutamente e un po’ senza volerlo. Ma credo che tutte le culture si 'mescolano', da quando l’uomo si è messo sulle due gambe ed ha camminato: scontri, ma anche molti incontri. Tutto ciò comporta delle perdite e degli arricchimenti. Il popolo incontaminato serve solo a certi tipi di antropologia, per cui l’uomo è solo un oggetto di studio, e non va alterato, va lasciato nella sua 'purezza'; nessun uomo è un bel quadro d’arte da mettere in museo, senza ritocchi.
Il 'pezzo di occidente' è il mio modo di vivere, sono certi strumenti, come il mulino che ho portato a Lukanga o i pantaloni e l’aspirina che qualcun altro portò prima di noi. Ebbene, questa trasmissione oggi avviene, con o senza il mio intervento. Dovresti vedere che 'pezzi di occidente' vengono in Kivu a prendersi il coltan, a prendersi il legname, a fare turismo, a coltivare caffè e cacao.
Ciò che posso e devo fare è far vedere concretamente che ci sono diversi modi con cui 'l’occidente' viene, incontra o invade l’Africa. Occorre far vedere che non tutto l’occidente ha gli stessi obiettivi, le stesse intenzioni, gli stessi metodi. Sicuramente abbiamo fatto sbagli, ma penso che nel nostro piccolo 'incontro' di culture ci siamo anche arricchiti reciprocamente. Penso che non esista solo il dilemma 'uso o non uso' la macchina, ma anche la posso usare 'diversamente'.
In tutti questi anni come sei riuscito a portare a bordo le altre persone, quelli con cui oggi condividi il tuo cammino di vita? E quali sono le relazioni con i locali, i soldati, le autorità...?
Credo di essere una persona comune, quel che sento, desidero, se il mio sogno lo sentono, lo desiderano e lo sognano anche altri; ed allora ci siamo trovati, ci troviamo sulla stessa strada. Ho vissuto questa esperienza in comunità, con alcuni per qualche anno, Diega, Concita, Paola, Mariella, Cesare, Verena, con altri da molti anni, Gianni, Concetta, Mashauri. Ci sono stati alti e bassi, applausi e accuse.
Per quanto riguarda le relazioni esterne, con la gente semplice del villaggio ci siamo sempre sentiti bene e se non fosse così non sarei più qui. Con le autorità civili, in genere abbastanza bene, ma è chiaro che non ho avuto rapporti quotidiani con loro; con le autorità diocesane invece il legame è diverso, quindi a volte ci siamo trovati con punti di vista diversi, divergenti ed anche tensioni. Ma esiste qualcuno che, nel suo cammino di fede, non ha vissuto questo?
Infine i soldati, negli ultimi 15 anni attorno a noi abbiamo avuto i ribelli maimai, i fuggitivi del Rwanda, l’esercito, gli ammutinati; tutti ci hanno fatto soffrire molto. Oggi c’è una discreta convivenza e in questo abbiamo giocato un ruolo positivo di intermediazione.
Hai dei rammarichi o dei rimorsi guardando a questa parte della vita vissuta? Chi sarebbe Giovanni se non fosse stato un sacerdote missionario. Cosa farebbe? Dove sarebbe? Che vita avrebbe? Come lo immagineresti?
Rammarichi e rimorsi, sì, ne ho, ma non moltissimi. È certo che potevo essere migliore. Ma mi interessano di più le strade e gli orizzonti che ho davanti. Quando hai attraversato un boschetto, lo hai lasciato alle spalle, non interessa a ritornarvi e passeggiare. Non riesco ad immaginare chi sarebbe Giovanni “se…”, perché non ci penso neppure. Dio mi offre ancora qualche anno e così sogno ancora qualcosa ed uso l’immaginazione per quello.
Che messaggio ti piacerebbe trasmettere ai lettori de Il Cambiamento?
L’Africa ha diversi volti. Conosco di più l’Africa del piccolo villaggio, è molto bella. È una miniera di umanità e di valori, purtroppo anche di oro. L’Africa è maestra, è occasione. Ognuno di noi deve assolutamente fare qualcosa per incontrarla, conoscerla, attingere; è un peccato di omissione non farlo. Occorre fare qualcosa per ostacolare chi, per sete di oro e ricchezza materiale, la sta violentando e deturpando, tanto più che tutti noi stiamo usando quotidianamente i frutti di queste violenze. Ai lettori de Il Cambiamento dico: cerchiamolo e facciamolo davvero, il cambiamento.
Il sito della missione: Waibraimu Muhanga
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