di
Giovanna Pinca
23-08-2013
'L'insostenibile leggerezza dell'avere' non è soltanto un'analisi teorica ma, anche e soprattutto, una rassegna di esperienze di vita di persone che hanno fatto della decrescita il proprio ideale ed hanno quindi cercato di metterne in pratica i principi. L'intervista all'autore del libro, Valerio Pignatta.
Finalmente. Non solo un saggio teorico sui movimenti sociali e politici che, in particolare dopo la rivoluzione industriale, hanno rifiutato la logica del produttivismo a tutti i costi, cercando altre strade da percorrere. Lo sguardo attento di Valerio Pignatta si concentra sul presente, analizzando da vicino e raccontando esperienze di vita di persone che, come l'autore, si sono date come ideale quello della 'decrescita', e hanno tentato di metterlo in pratica. Esperienze che in apparenza possono sembrare estreme, ma che in realtà non lo sono certo di più di quelle di chi sceglie - più o meno consapevolmente - di sacrificare tutto sull'altare della 'crescita': il tempo, l'ambiente, l'incontro con gli altri e la vita in tutte le sue espressioni.
Proprio sui temi affrontati nel suo ultimo libro, L'insostenibile leggerezza dell'avere (Ed. EMI, 2009), abbiamo intervistato Valerio Pignatta, socio fondatore del Movimento per la Decrescita felice e attivo sostenitore della 'sobrietà', dell'autoproduzione e di un mercato che valorizzi anche lo scambio di beni e servizi.
La prima parte del tuo libro delinea una storia dei movimenti e del pensiero che hanno portato in Italia alla nascita del Movimento della Decrescita Felice. Che rapporto c’è tra i concetti di decrescita e quello di sostenibilità?
Decrescita e sostenibilità sono due concetti antagonisti sebbene questa possa sembrare a molti un'affermazione eretica. In ogni caso molti autori come Serge Latouche o il nostro Maurizio Pallante, che possiamo inserire nel filone del primo paradigma citato, hanno chiarito ormai le differenze tra i due sistemi di pensiero. Lo sviluppo sostenibile prevede l'instaurazione di una società 'ricca' ed economicamente in evoluzione continua, sebbene con una particolare attenzione a un impatto industriale ecosostenibile appunto, ossia non inquinante, orientato al risparmio, di qualità ecc.
L'ottica di fondo di questo sviluppo è comunque quello della crescita. Ovviamente però non ci può essere, come ormai sappiamo, uno sviluppo infinito in un sistema finito quale è il nostro pianeta. Il concetto di sviluppo sostenibile è quindi un ossimoro. La decrescita sottolinea questo aspetto contraddittorio di gran parte del pensiero ecologista e riafferma la necessità, così come è stato più volte fatto nella storia, di mettere dei paletti allo sviluppo, tecnologico od economico che sia, e di valutare l'esistenza umana e il suo senso secondo altri parametri quali la relazione tra persone, la semplicità, la solidarietà, la cultura e il saper fare e cioè l'indipendenza dal sistema. Almeno, questa è la decrescita che io ho abbracciato all'interno di una pluralità di visioni che convivono in questo movimento culturale ed economico.
Negli ultimi anni abbiamo visto, all’estero ma anche in Italia, molteplici 'esperimenti' di allargamento della partecipazione alle decisioni di governo del territorio a livello locale da parte delle amministrazioni, a partire dalle Agende 21. Che nesso c'è tra decrescita e pratiche partecipative?
Non ho approfondito questo discorso. Tendenzialmente non ho alcuna fiducia nelle istituzioni e la 'partecipazione' alle dinamiche sociali che vengono offerte sul mercato massmediatico e politico odierno mi ricordano quella che gli induisti chiamano Maya, l'illusione. Credo che alcuni pensatori bioregionalisti o municipalisti libertari abbiano sviluppato teorie e progetti concreti di partecipazione locale e comunale reale, metodi del consenso, meccanismi decisionali di unanimità ecc. che sicuramente si inseriscono in un'ottica di sobrietà esistenziale (e quindi legata al proprio territorio), di intervento partecipativo nella comunità... ma credo siano ancora realtà limitate.
Per quello che so io la decrescita reale è vissuta in Italia da singoli, famiglie o 'clan' spontanei che al momento non dispongono di grandi strumenti per influenzare le decisioni delle collettività in cui sono inserite. Certo ci sono i cosiddetti comuni virtuosi, le associazioni che lavorano in questo ambito e alcuni intellettuali illuminati che si muovono in questo senso ma non saprei quanto coinvolgono a monte le popolazioni e quanto invece traducono il verbo incarnandolo (raccolta differenziata piuttosto che risparmio energetico su illuminazione e acqua ecc.). Le scelte personali, la 'conversione', o meglio oggi si potrebbe dire la 'riconversione' delle esistenze riguarda sempre gruppi sparuti di individui sensibili. Che speriamo possano aumentare.
Le esperienze nei diversi paesi - europei e non - sono in collegamento tra loro o procedono in modo isolato? C'è una 'rete' intorno al pensiero della decrescita?
Per quello che so io ci sono contatti tra alcune diverse realtà ed esperienze europee di 'obiettori di crescita' ma nell'insieme ogni paese sta sviluppando caratteristiche proprie e modalità di azione e intervento peculiari. Nel libro che ho pubblicato per la EMI cerco di illustrare queste differenze che hanno anche origini storiche e filosofiche diverse. Le Transition Towns inglesi, ad esempio, partono dal substrato culturale anglosassone della permacultura che da noi sta iniziando solo ora a fare capolino in maniera più decisa. In Francia il movimento è forte di anni e anni di analisi approfondite di 'predicatori' incalliti come Serge Latouche, Bernard Charbonneau o Jacques Ellul.
In Italia, oltre a Maurizio Pallante che si è focalizzato tra le altre cose su autoproduzione ed energie rinnovabili, ci sono pensatori come Mauro Bonaiuti che partono dal pensiero dell'economista Nicholas Georgescu-Roegen per compiere disanime della società industriale di chiaro interesse per chi intende ovviarvi.
Per quanto riguarda la tua esperienza e quella delle persone che hai intervistato, quali sono i principali risvolti economici della decrescita?
Se pensiamo di 'decrescere' per diventare più ricchi nel senso che oggi si attribuisce a questo sostantivo è meglio che lasciamo perdere. Coloro che fanno affermazioni simili probabilmente la decrescita non l'hanno mai vissuta o hanno le 'spalle coperte'. Questa scelta è sempre e comunque una scelta che riduce e non che aumenta. Va capito però che nella riduzione c'è un ampliamento. Ed è l' aumento di tranquillità, di indipendenza, di insicurezza anche, ma di verità.
La decrescita a livello personale, ora come ora, non credo abbia risvolti 'economici' eclatanti, sebbene se fosse operativa per un buon numero di persone opererebbe un cambiamento sociale enorme. Chissà quante fabbriche chiuderebbero obbligando altri individui a riconvertirsi e a vivere altre esistenze più feconde. L'autoproduzione di alimenti casalinghi piuttosto che l'orto familiare ecc. sono attività che permettono alcuni rivolgimenti vantaggiosi. Liberano dal sistema piccoli pezzi di esistenza. Ma vorrei sottolineare che non è una questione esclusivamente economica (o ecologica). È anche politica e morale. È sottile. E non si lavora di meno. Almeno, io non ci riesco. Anzi. Ma mi pare che le persone che praticano questo stile di vita (per come le ho conosciute) acquisiscano un senso di maggiore dignità. Che di questi tempi, in cui tutto ha un prezzo, non è poco.
Estremismo e praticabilità: esistono secondo te delle possibilità di integrazione tra un sistema di vita decrescente e il resto della società? Spesso le esperienze di cui parli sono di parziale isolamento, almeno in senso fisico…
Credo che o il 'resto della società' si adatterà a queste pratiche di 'estremismo' o non ci sarà più alcun tipo di società. Può sembrare un'affermazione millenaristica ma non lo dico io, a dirlo sono autorevoli studi di organizzazioni internazionali (e non quelle ambientaliste). Non c'è abbastanza coscienza nella società rispetto alla reale situazione, questo sì. Ma credo sia solo questione di tempo.
Inaridimento dei suoli da ipersfruttamento, carenza d'acqua, inquinamento e crescita delle malattie degenerative e dello stress socio-economico comporteranno prossimamente 'leggeri' cambiamenti... Certo, l'uomo può reagire come ha sempre fatto sinora con la prevaricazione e la legge del più forte, ma ci sono anche buone speranze che possano invece farsi scelte inverse di autogestione e condivisione, fuori dalle istituzioni e in barba ai governi o ai gruppi di potere guerrafondai ed energivori.
Chi oggi sceglie di isolarsi non lo fa a mio parere per ostentazione di superbia o per delusione e resa patologica ma per proteggersi e proteggere i propri figli. In un mondo in cui si stanno estinguendo oltre alle specie animali e vegetali anche ideali e virtù umane di grande pregio è opportuno che si creino isole o arcipelaghi di cultura 'altra' dove queste qualità, virtù e conoscenze pratiche possano continuare a esistere e a tramandarsi affinché nel momento del bisogno e della rinascita l'umanità vi possa attingere. L'isolamento non è altro, credo, che desiderio di protezione e di sopravvivenza.
Qual è l'elemento più difficile nel rapportarsi al 'resto del mondo' per chi fa una scelta del genere? è cambiato qualcosa negli ultimi anni nella percezione delle persone?
La difficoltà per chi opera scelte di questo tipo è farsi carico della propria solitudine di fronte alla massa disperata di omologati che ti giudicano e alla gelida indifferenza e crudeltà delle amministrazioni e dei meccanismi del sistema che in un modo o nell'altro ti vessano. In pratica nessuno ti regala nulla. Chi abbandona la situazione classica - lavoro sicuro, città, cellulare, leasing, mutuo, auto, moto, vacanze, moda, estetista ecc. - lo sa. Eccome. Ma chi esce ha la possibilità di contemplare il panorama nel suo insieme dall'alto della collina e di coglierne aspetti interessanti.
Tanto più su come è andata mutando la società negli ultimi decenni. Per fare un esempio, nel 1971 il film Arancia meccanica di Stanley Kubrick uscì nelle sale cinematografiche di tutto il mondo scuotendo le masse con le sue scene di violenza inaudite. A quel tempo il film era vietato ai minori di 18 anni. Nel 1998 il film è stato nuovamente redistribuito nelle sale ma vietato ai minori di 14 anni. Un ragazzino di 14 anni poteva quindi nel 1998 permettersi di sogghignare di fronte a una scena che venticinque anni prima lo avrebbe forse danneggiato nel suo sviluppo morale e sessuale nonché psicologico per il resto dei suoi giorni.
Oggi credo potrebbero vedere questo film ragazzini di 11-12 anni... Con tutto quello che ciò significa. E di questo purtroppo non c'è coscienza per chi vive con la tv in casa da trenta-quarant'anni e si è abituato a vedere migliaia di omicidi e violenze all'anno come se fossero fatti normalmente e realmente esistenti. In effetti più che altro c'è da stupirsi che i nostri vicini non si siano ancora tutti trasformati in altrettanti Rambo e Terminator. Qualcosa nell'essere umano ancora resiste.
Il tratto comune alle varie esperienze che racconti?
Credo che il tratto comune sia la ricerca personale di un percorso individuale di pace e coerenza interiore, a volte di tipo politico o ecologista e a volte di tipo spirituale o solidale. Sono tutte persone con grandi qualità interiori che hanno abbandonato i percorsi abituali e illusori della scalata sociale per cercarsi uno spazio più vicino alla natura e all'essenzialità. La ricerca di situazioni in un certo qual modo 'senza tempo' facilita sicuramente la riflessione profonda e cerca di rispondere al bisogno di ogni essere umano di dare un senso superiore alla propria esistenza. Che penso sia l'unico motivo per cui vale la pena di vivere.