di
Dario Lo Scalzo
25-11-2010
Mossa sin da bambina da un profondo senso di giustizia, Vittoria Quondamatteo, psicologa e psicoterapeuta di comunità, crescendo ha fatto dell'impegno sociale il valore guida della sua esistenza. Il volontariato in Africa, l'associazione AINA ed il progetto Fiore del Deserto costituiscono il risultato della passione di Vichy, una donna "malata di senso dell'altro". La sua storia in un'intervista.
Il valore della solidarietà, dell’impegno sociale, del rispetto dell’altro e della condivisione totale spingono persone semplici a seguire il proprio istinto superando le paure per gettarsi con passione nella costruzione di micro realtà in grado di rispondere efficacemente e concretamente alla povertà e alla marginalità sociale. Questa volta 'Storie invisibili' racconta il cammino di vita della psicoterapeuta e psicologa di comunità Vittoria, meglio conosciuta come Vicky, che ha scelto la giustizia sociale e l’accoglienza come principi guida della propria vita.
Il luogo di accoglienza è un luogo che trasforma; accogliere l’altro permette di trasformare il suo dolore in Bellezza
Chi entra in contatto con l’AINA e con l’associazione Fiore del Deserto resta impressionato dal numero di progetti, di attività e di iniziative a cui queste associazioni, di tua creazione, hanno dato vita negli ultimi anni. Prima di entrare nel merito per provare a raccontare tutto ciò ai lettori de Il Cambiamento, raccontaci chi è Vicky?
Sono del 1970. Sono nata a Lecco anche se ho vissuto la mia adolescenza a San Benedetto del Tronto. Ho fatto gli studi universitari a Roma dove ho conseguito una laurea in psicologia, indirizzo clinico e di comunità con un diploma in psicoterapia familiare. Ma in fondo poco importa tutto ciò al lettore. Probabilmente Vicky è quella che era da bambina quando a 10 anni nel periodo natalizio scriveva delle lettere in cui esprimeva la propria profonda tristezza per i bambini poveri, quelli che non avevano nulla. Ero una bambina complicata che si crucciava per la giustizia sociale come fosse qualcosa di innato, di intrinseco. Forse oggi sono ancora quella bambina, meno complicata perché l’esperienza mi ha portato a conoscere la semplicità del vivere. A volte mi definisco malata, malata di 'senso dell’altro'.
Mi pare di capire che il tuo passato rappresenti qualcosa di importante e determinante nella persona che sei oggi. È un passato in cui sei sempre stata spinta dal desiderio forte di 'dedicarti' agli altri.
Ognuno di noi è nel presente la somma dei suoi passati. Forse quello che stupisce nel mio caso è la continua e coerente ricerca di darmi che poi mi ha portato a dedicare tutte le forze e le energie per questa causa. A 11-12 anni facevo del volontariato per bambini orfani mentre dai 14 ai 17 mi sono occupata di bimbi disabili, ricordo che mi fu anche dato una sorta di premio della bontà a San Benedetto. A pensarci mi viene da ridere. A 18 anni invece, la 'folgorazione', il primo viaggio in Africa, dopo alcune brevi esperienze umanitarie in Guatemala e Belize.
Vicky, ti si illuminano gli occhi al solo pronunciare la parola Africa. Raccontaci dunque di questa 'folgorazione'
L’Africa rappresenta per me una svolta, o meglio la prima e la più importante di una serie di svolte della mia vita. Come accade a tante persone, sin da bambina desideravo fare la missionaria. Quando ho fatto la prima missione in Kenia come volontaria in un ospedale per bambini malati di AIDS, ho avuto davvero come un’illuminazione. Era quella la strada da percorrere nella mia vita: la vita dei deboli, della povertà, dell’amore e del darsi. Da quel momento non ho più lasciato l’Africa.
Ho cominciato anno per anno a fare delle missioni in Kenia. Studiavo la notte e lavoravo durante il giorno per mettere da parte dei soldi per le partenze africane. Pian pianino sono riuscita anche a mettere insieme altre persone interessate a 'darsi' e così, soprattutto nei periodi estivi, si andava in Africa. Da lì a qualche anno nacque l’AINA anche grazie all’aiuto delle Piccole Suore Missionarie della Carità.
Ti sei mai chiesta perché l’Africa ti abbia trasmesso immediatamente quel messaggio di solidarietà? E non ti sei impaurita per quella 'illuminazione'? Avevi solamente 18 anni...
L’Africa mi ha fatto comprendere realmente il significato dell’altruismo e quello dell’accoglienza. Attenzione, parlo dell’altruismo dei poveri, parlo dell’accoglienza della gente umile, semplice. Vivere in Kenia è stato una vera svolta proprio per quello. La gente viveva nella felicità e nel senso di pienezza. È gente capace di condividere quello che ha. Il nulla viene condiviso. Il povero è grato alla vita, è ricco verso la vita. Chi ha gratitudine interna, è in grado certamente di dare.
Sai nella mia prima missione, quella nell’ospedale per bimbi affetti da AIDS, ho trascorso parecchio tempo a pulire i bagni o a fare le pulizie in genere. All’inizio era una grande delusione per me, perché ero partita dall’Italia con l’idea di cambiare il mondo, di occuparmi delle popolazioni povere e bisognose. In quei giorni ho riflettuto molto per poi arrivare ad una conclusione: 'scartavetrare' in Africa mi ha cambiato la vita. Non è importante quello che fai, ma come lo fai. Questo è l’insegnamento dell’Africa. Ogni cosa da fare va fatta con Amore. Quello che stavo facendo in quella missione era utile a qualcuno, qualcuno poteva usufruirne. Ogni cosa che fai falla nell’Amore; sta lì la semplicità della quotidianità e della vita.
Vicky, avverto un tono nostalgico nel sentirti parlare della 'tua' Africa, mi sbaglio?
Non ti sbagli. L’Africa di 20 anni fa non è più quella di oggi. Ho visto evolvere quel continente, sono cresciuta con il suo crescere. Mi chiedo se l’Africa di oggi sia cambiata in meglio o in peggio. Non riesco a darmi una risposta. Per alcuni versi le cose sono migliorate. Sicuramente muoiono di fame meno bambini di un tempo, ma per assurdità, ne muoiono tuttora tanti a causa di malattie curabili, per esempio. Adesso laggiù è arrivata la luce, a volte anche l’acqua, mentre anni addietro era impensabile. Dovrei dire dunque che il presente sia migliore del passato, ma le cose non stanno proprio così.
Le contraddizioni dell’Africa sono sempre più grandi. Vedere i telefonini all’ultimo grido nelle capanne dei pastori Masai nel deserto è spaventoso. Spaventoso perché sai che è gente povera, che ha grosse difficoltà a nutrirsi per le condizioni di miseria in cui vive. La spaccatura culturale è sempre più forte. Mi chiederai di certo come sia possibile. Ebbene è l’arrivo dell’uomo bianco. L’uomo bianco ha cambiato il processo culturale di quei popoli. Ha aperto grossi centri commerciali nelle città, il turista offre 2-3 dollari ad un Masai per fotografarlo. Un tempo un vero Masai l’avrebbe concessa gratuitamente una foto, perché è stato educato alla gratuità dell’interagire. Questo mi rattrista.
Dopo il tuo incontro con l’Africa e la tua crescita interiore, sei comunque ritornata in Italia sia per continuare gli studi universitari sia per i tuoi affetti. Come hanno convissuto il tuo amore per l’Africa ed il tuo forte senso di giustizia sociale con la quotidianità italiana e con il tuo vivere 'conforme'?
Quando senti l’Africa dentro te stessa non puoi non volerla vivere anche fuori dall’Africa, altrimenti non avrebbe senso o sarebbero delle sensazioni false. Ho trascorso un periodo molto difficile. L’ho definito come il periodo della schizofrenia. Ed invece per i primi tempi non era possibile o comunque non riuscivo a maturare con l’azione quello che sentivo con quello che vivevo.
Non sopportavo l’eccessivo consumismo, l’atteggiamento circostante. In occidente consumi 100 volte più di quello di cui si ha bisogno. Non tolleravo gli sprechi, i vestiti di marca, le dozzine di paia di scarpe delle amiche. Insomma l’usa e getta mi faceva schifo. Ma non era solo quello a farmi stare male. Era anche la noia, è come se nella città occorre ubriacarsi per divertirsi, per vivere la propria quotidianità. Tutto è così futile ed inutile.
Vivevo un dramma interiore. Non sono riuscita immediatamente a reagire, a seguire il mio istinto; ero anche molto giovane. E poi nel giro di poco tempo questa società ti assorbe ed è facile rientrare nei ranghi; certo avevo un solo paio di scarpe e non ero la ragazza più sprecona di Roma, anzi ero un po’ alternativa, ma non bastava. A tratti pensai anche di abbandonare l’università, ma sarebbe stato un grande dolore per i miei genitori. Così inizialmente, studiavo e lavoravo come segretaria presso uno studio legale, ciò che mi permetteva di inviare del denaro laggiù ma soprattutto di autofinanziare i miei viaggi in Kenya per i vari progetti: alfabetizzazione dei bimbi, nutrizione, recupero bimbi che sniffano colla ed altri.
Cosa ha fatto scattare il 'click' che poi ti ha portato a creare l’AINA dopo solo qualche anno, nonostante fossi assorbita dal quel tipo di sistema?
In Africa ho ricevuto tantissimo dai poveri. Ho sperimentato uno stato di serenità e di pace e così mi sono detta "adesso è doveroso che mi dia". Era arrivato il mio turno. Occorreva dare una parte di me e condividere. La condivisione è un ideale forte. Voglio ribadire un concetto essenziale: non basta dare, ma occorre darsi. Il resto non conta, ma occorre una grande anima. In quel momento storico è arrivata un’ennesima svolta della mia vita, l’incontro essenziale con suora Noemi con la quale abbiamo fondato l’associazione.
E così arriva l'AINA. Perché questo nome?
Ho sempre avuto una passione per i nomadi, per il loro stile di vita, per il loro forte senso di appartenenza a quello stile e alla loro cultura, che sia giusta o sbagliata, poco importa. Per cui ho legato l’immagine del nomade all’Amore. Raffigura il senso di appartenenza da ricondurre all’Amore universale. Io credo ciecamente all’Amore. Se si cominciasse a sentire l’appartenenza universale, al tutt’uno, la vita si trasformerebbe. L’AINA è un cammino d’incontro. Dall’incontro nasce l’Amore.
L’AINA viene fondata nel 1993. Si tratta di un’associazione laica di ispirazione cattolica che ha portato avanti parecchi progetti di utilità sociale. Puoi darci maggiori dettagli?
Con l’AINA abbiamo condotto vari progetti dal 1993 ad oggi, quasi tutti in Kenia. Dai progetti di difesa dei diritti dell’infanzia nel Sud del mondo a quelli per bambini sieropositivi, dai progetti agricoli a quelli di ricostruzione o costruzione (case, dormitori, nursey) dall’aiuto alle famiglie povere a quelli di alfabetizzazione, sino ad arrivare a dei grossi progetti come quello della realizzazione di un acquedotto per portare acqua all’ospedale di una missione.
Di recente, lo scorso Aprile, è stato inaugurato il villaggio-famiglia 'Bimbi del Meriggio' conosciuto in Kenya come Aina Children’s home. Una struttura operativa dal 1° maggio di quest’anno che ospita i bambini orfani affetti da HIV. Tale progetto è molto importante per noi in quanto rappresenta una speranza di futuro per i bambini. È bello sottolineare che l’associazione vive ed ha vissuto di donazioni di privati. È il richiamo dell’amore e della solidarietà. Ancora una volta è l’incontro di persone dal quale nasce l’Amore.
Seppure giovanissima, eri già abbastanza attiva nel lottare per il 'mondo dei deboli' eppure dopo il lancio dell’AINA arriveranno altre svolte nella tua vita che ti porteranno a seminare per un altro valore caposaldo della tua filosofia di vita, l’accoglienza.
Sono convinta che chi si muove per la giustizia sociale finisce sempre con l’avere una vita ricca di svolte. Sono degli incontri calamitati dalla ricerca dell’amore. Sono quelle svolte che spesso instradano verso nuovi sentieri, a volte senza neppure averlo preventivato. Intanto una svolta è stata rappresentata dalla fine degli studi, con la laurea. Mentre sino a quel momento avevo un cammino tracciato dall’educazione ricevuta, quello di dovere terminare gli studi, all’indomani della laurea mi trovavo realmente davanti ad un bivio, nonostante il mio forte interesse per le attività ed i progetti dell’AINA, della quale peraltro ero la direttrice.
Presi un periodo sabbatico durante il quale andai a vivere per circa 6 mesi in Kenya. In quel periodo nasceva in me un fortissimo desiderio di accoglienza. Sognavo di accogliere l’altro. Dopo quel periodo di viaggio, dopo altre esperienze umanitarie e tante riflessioni, rientrai in Italia e cominciai a lavorare come tutor d’aula per le donne che provenivano dal carcere. In quel contesto professionale ecco l’ennesima svolta. Incontrai e conobbi una donna che aveva una storia di violenze, di abbandono e di disagio. Discutere con lei mi mise realmente in crisi sino ad arrivare alla decisione repentina di accoglierla in casa mia a Roma insieme ai suoi 2 cani.
Da lì cominciò lentamente la mia prima esperienza di accoglienza. Ben presto arrivarono in casa altre persone di ogni genere, prostitute che mi venivano invitate da alcune associazioni o altra gente bisognosa. Nel mio appartamento-comunità si viveva la condivisione. Si condivideva il cibo, i soldi anche grazie al sostegno datoci dalle suore di Don Orione. Vivevo la mia piccola idea di accoglienza. Accogliere l’altro dentro di te.
Sicuramente un’esperienza forte nella quale ti sei messa in gioco in prima persona ma soprattutto ti sei messa alla prova testando sulla pelle la concretezza del tuo pensare. Fermo restando che in tutto questo continuavi con i tuoi viaggi africani, cosa successe in seguito sul fronte 'accoglienza italiana'?
Successe quello che era scontato succedesse probabilmente. Quella casa non bastava più, non era più sufficiente. E così mi mossi alla ricerca di una casa più grande. Anche lì con l’aiuto della gente e degli incontri dell’amore, riuscii in quello che sembrava impossibile. Un agente immobiliare mi mostrò la struttura con terreno presso il quale si trova attualmente la casa di accoglienza Il Fiore del Deserto. Rimasi affascinata da quel paradiso distante solo pochi km da Roma. Ovviamente non avevo i soldi per pagare la casa ed il terreno, ma le suore del Don Orione, sempre a me vicine, mi dettero fiducia ed acquistarono quella proprietà. In Marzo 2001, iniziò l’attività della casa famiglia
Anche in questo caso un nome particolare che incuriosisce, cosa lo ha ispirato?
Nasce dal grande carisma di Don Orione. In una lettera scriveva che qualsiasi cosa che facciamo è come un fiore nel deserto; nasce, cresce e muore perché è Dio che lo permette. Il luogo di accoglienza è un luogo che trasforma; accogliere l’altro permette di trasformare il suo dolore in Bellezza. Il nostro obiettivo con Il Fiore del Deserto che rientra nel grande 'Progetto Accoglienza' è proprio quello di cercare di trasformare il dolore in qualcosa di bello. È un progetto molto ambizioso rivolto alle diverse manifestazioni del disagio sociale e del disagio psico-sociale dei minori, dell’immigrazione.
Suggeriremo ai lettori de Il Cambiamento di consultare il vostro sito internet in modo da avere un quadro esauriente delle innumerevoli strutture, attività ed iniziative in seno al 'Progetto Accoglienza'. Intanto puoi spiegarci a chi si rivolge Il Fiore del Deserto?
Il Fiore del Deserto che collabora con diverse altre strutture ed associazioni accoglie donne in difficoltà accompagnate da figli minori, donne in stato di detenzione, donne vittime di violenze, maltrattamenti, donne povere. Accoglie inoltre adolescenti con disagi psichici o che sono entrati nel circuito della devianza, o che provengono da campi nomadi. Adolescenti che hanno ricevuto condanne civili e penali. Accoglie sino all’età di 21 anni anche se ci sono casi di accoglienza libera.
Negli anni nella nostra Casa Famiglia abbiamo visto di tutto e abbiamo dato accoglienza ai più poveri tra i poveri. Non nascondo che per i primissimi anni, ci sono stati periodi in cui abbiamo fatto la fame nel vero senso della parola e solo grazie al buon cuore della gente siamo riusciti a tirare avanti. Oggi gli ospiti del Fiore del Deserto seguono un progetto personalizzato che prevede corsi di formazione professionale e di alfabetizzazione, di sostegno psicologico e di inserimento lavorativo.
Visitando Il Fiore del Deserto si è rapiti dal silenzio, dalla serenità della Natura attigua alla struttura di accoglienza e anche da 'La Magia del Deserto', puoi spiegare ai lettori di cosa si tratta?
È vero, sembra un paradosso considerate le storie difficili che si susseguono l’una dopo l’altra all’interno della struttura; è un posto di serenità e di silenzio. Mi preme sottolineare che parallelamente all’attività di accoglienza abbiamo dato vita a delle iniziative interessanti: laboratori e corsi per la formazione dei nostri ospiti, serate per la raccolta fondi ed anche 'La Magia del deserto'. Si tratta di un circolo culturale di gastronomia sociale, in breve un ristorante aperto a tutti con il quale cerchiamo ancora una volta di fare apprendere un mestiere agli ospiti della casa di accoglienza e con il quale, allo stesso tempo, proviamo a trasmettere un’educazione alimentare. Ovviamente invito tutti i lettori a fare un salto e provare i sapori delle tradizioni della nostra cucina. In breve, il Progetto Accoglienza mira a creare dei luoghi sociali in cui si lavora per tentare di non lasciare indietro nessuno ed in questo il vissuto di ognuno di noi può diventare dono e ricchezza per l’altro.
Vicky, prima di chiudere questa appassionante intervista e ringraziarti per quello che ci hai trasmesso, come ti descriveresti?
Sono una persona molto esigente, mi sta stretto tutto. Estremamente attenta all’altro, dalla sensibilità clinica. Mi definisco un’anarchica rispetto alla vita perché il mio agire, i miei comportamenti ruotano sempre intorno alla logica della solidarietà e della carità, ma ahimè questa non è la logica della nostra società.
In quello che dici colgo un senso di sfiducia negli altri e in questo sistema...
Oggi la situazione si fa davvero pesante, ragionando a livello 'micro', nella mia realtà è difficile trovare dei volontari, poca gente è disposta a darsi gratuitamente. È difficile far capire che spesso sono i poveri, i deboli, i sofferenti, gli esclusi, i disagiati a darci più di quello che noi pretendiamo di dare. Non danno soldi ma ti fanno crescere umanamente, è ricchezza di altro genere. A livello 'macro' invece c’è una sorta di sordità del mondo, la gente sembra sempre più piatta e chiusa. Per molti l’incontro non è più amore ma interesse, per cui un po' di sfiducia esiste perché non avverto più tutt’intorno quel battersi per la giustizia sociale.
Per concludere, che messaggio finale ti piacerebbe trasmettere ai nostri lettori?
Avere la consapevolezza che è possibile cambiare nell'evoluzione e che è anche possibile fare cambiare le persone attorno l’Amore che scaturisce dall’incontro e accogliendo l’altro dentro se stessi.
Nessun dorma in questo momento! Alzatevi e gridate la vostra Libertà e sentitevi davvero liberi, spogliati di ipocrisia, svestiti di odio, liberi angeli per un nuovo mondo: quello che mai sognate, quello che avete l’obbligo di costruire - Dario Lo Scalzo
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