di
Andrea Degl'Innocenti
08-01-2013
Molte testate internazionali osannano l'Irlanda, che sembra essersi ripresa dalla crisi puntando sulle energie rinnovabili. Ma ad una analisi più attenta, la svolta "green" della ex tigre celtica più che una rivoluzione sembra uno specchietto per le allodole per convincere gli altri paesi a seguire la stessa strada di austerità e favori ai colossi della finanza.
D'improvviso la stampa internazionale celebra la rinascita dell'Irlanda. La ex “tigre celtica”, fra i primi paesi europei a cadere vittima della crisi economica mondiale, si sarebbe ripresa grazie agli ingenti investimenti fatti nelle energie rinnovabili.
Da uno “stato al verde” ad uno “stato verde” nel rapido volgere di pochi mesi: una rivoluzione che secondo l'Economist sarebbe in grado di garantire una crescita economica del 2 per cento e riportare il rapporto deficit-Pil al di sotto della soglia di emergenza. I giornali si sperticano in lodi ed ecco comparire d'improvviso la “via irlandese per uscire dalla crisi”. Persino il Time ha dedicato una delle sue celebri copertine al primo ministro irlandese Enda Kenny titolando “Celtic comeback”, il ritorno dei Celti.
Ora, sarà per deformazione professionale, ma quando a tessere le lodi di una nazione sono le principali testate mondiali, assieme ai maggiori apparati della finanza, sono portato per natura a dubitare. Con tanto che sono un convinto ambientalista, sicuro che le energie rinnovabili, unite ad un rapporto più consapevole con il nostro ecosistema, siano tasselli imprescindibili di ogni possibile risposta alla crisi attuale (che per inciso non è solo economica ma anche ambientale, sociale, politica, culturale, in una parola sistemica). In questo caso non è la notizia in sé a rendermi scettico, sono piuttosto le sue fonti.
Ma cerchiamo di ricostruire la storia del paese nordico, per vederci più chiaro. Dal 1995 al 2007 l'Irlanda conobbe una rapidissima espansione finanziaria, che la trascinò ai vertici dell'economia europea. Da terra di emigranti, da sempre povera e subalterna alla ricca Inghilterra, l'Irlanda si trasformò in una nazione benestante, ricca di attrattiva per chi era in cerca di nuove opportunità. Nel 2008 il Paese aveva il secondo Pil pro capite più alto dell'Ue. Fu in quegli anni che si guadagnò il soprannome di tigre celtica.
Ma la rapida ascesa dell'economia islandese, che pure ebbe gli effetti positivi di aumentare l'occupazione e consentire lo sviluppo di un moderno sistema di welfare, poggiava le proprie basi sulla superficie scivolosa di un'enorme bolla speculativa finanziario-immobiliare, con dinamiche simili a quelle che di lì a poco sarebbero esplose in America, Spagna ed Islanda.
La crisi scoppiò nel settembre 2008, con l'esplosione della cosiddetta Irish property bubble, la bolla immobiliare irlandese. Gli effetti furono devastanti: il Paese precipitò in una recessione del 7,5 per cento e il tasso di disoccupazione balzò al 13,8 per cento nel 2009; il deficit pubblico aumentò da 33,6 a 40,46 miliardi di euro.
Di fronte alla catastrofe il governo corse ai ripari chiedendo l'aiuto del Fondo monetario internazionale, che rispose “presente”. In breve fu approntato un bel piano di aiuti, suddiviso in una serie di tranche, l'ultima delle quali, di poco meno di un miliardo di euro, è stata versata proprio sul finire del 2012. Ma come accade ogni volta che il Fmi accorre in aiuto di una nazione bisognosa, il prezzo da pagare è decisamente alto. Prima di sbloccare gli aiuti il Fondo voleva vedere soddisfatte alcune sue esigenze.
A dicembre del 2009 il ministro delle finanze irlandese Brian Lenihan annunciò tagli al welfare, alla spesa pubblica e ad alcuni progetti chiave per un ammontare di 4 miliardi di euro. Ma non fu sufficiente. Nel dicembre dell'anno successivo il governo ricorse ad un ulteriore taglio di 6 miliardi di euro. Parallelamente si ricorse ad un aumento del gettito fiscale da 5 miliardi di euro. La manovra nel suo complesso ebbe una portata di 15 miliardi di euro.
Ma su cosa si è tagliato? A fare le spese della ricetta di austerità pianificata dal Fmi sono stati i sussidi di disoccupazione, i dipendenti pubblici (i cui stipendi sono stati decurtati del 10 per cento), i servizi, lo stato sociale in genere (la cui spesa verrà ridotta di 2,8 miliardi entro il 2014). L'Iva verrà innalzata al 22 per cento nel 2013 e al 23 nel 2014, mentre è stata introdotta un'imposta universale di 100 euro su tutte le case private dello stato. E nel 2013 l'agenda sembra tragicamente simile, con Michael Noonan, ministro delle Finanze del governo Kenny, che punta a ridurre la spesa pubblica di 3,5 miliardi di euro effettuando ulteriori tagli al welfare e chiudendo diversi programmi finanziati dallo stato come l’assistenza ai bambini disabili o con esigenze speciali, o gli aiuti agli ospedali locali.
Ma se il popolo irlandese è continuamente vessato da nuove tasse e tagli allo stato sociale, le banche e le grandi aziende non possono dire altrettanto. Nel caso delle prime, lo stato è intervenuto più volte con piani di salvataggio, facendosi garante del debito totale di ben sei istituti di fronte alle altre banche europee creditrici. Il debito delle banche è diventato così dello stato, il quale è passato in quattro anni dall'avere un debito pubblico del 25 per cento del Pil, ad uno del 108.
Sul fronte delle grandi aziende, l'Irlanda è rimasta un paradiso per tutte le multinazionali in cerca di un regime fiscale favorevole. Google, la Apple, Starbucks, Amazon hanno installato le proprie sedi europee e Dublino, dove godono di favori fiscali che non trovano negli altri stati. Esistono anche tecniche brevettate come il “Double Irish”, che molte grandi aziende fra quelle che operano in più stati mettono in pratica: consiste nel trasferire prima le royalties sui brevetti dai paesi di origine a una filiale con sede in Irlanda, dove l'aliquota è bassa, al 12,5 per cento. Poi, attraverso un'altra società a Dublino nel trasferire parte dei profitti in paradisi fiscali.
Il quadro dell'economia irlandese viene costantemente monitorato dal Fmi, che pare sia molto soddisfatto di come stanno andando le cose. "La costante attuazione delle politiche dell'Irlanda è proseguita anche quando la crescita ha subito un rallentamento nel 2012", hanno commentato compiaciuti gli ispettori del Fondo durante l'ottava revisione della performance del paese che precedeva il rilascio dell'ultima tranche di aiuti.
Trascinati dalla fiducia espressa dal Fmi, dalle riforme volte all'austerità, dai favori alle multinazionali e dal miglioramento del giudizio delle agenzie di rating i mercati sono ultimamente tornati a sorridere alla tigre celtica. Il recente andamento dei titoli di Stato dell'Irlanda ha dell'incredibile: dal 7,34 di rendimento sui titoli decennali di fine maggio al 2,38 di agosto: una frenata del 67 per cento.
Ora all'interno di questo contesto si inseriscono le misure green volute dal governo. Che nei fatti coincidono con l'introduzione di una Carbon Tax sull'utilizzo di combustibili fossili da parte di case, uffici, automobili e fabbriche. Questa, sia chiaro, è di per sé un'ottima notizia, visti anche i risultati ottenuti: petrolio, gas naturale e cherosene sono saliti di prezzo dal 5 al 10 per cento; le emissioni totali del Paese si sono ridotte del 15 per cento dal 2008 ad oggi, del 6,7 nel solo 2011; lo stato ha guadagnato 1,17 miliardi di dollari dal gettito fiscale proveniente dalla tassa verde.
Ma da qui a dire che l'Irlanda è uscita dalla crisi grazie alle energie rinnovabili il passo è lungo. Primo, l'Irlanda non è uscita dalla crisi: il debito totale del paese (pubblico più privato) è pari a circa il 530 del Pil; di questo circa un quinto è costituito dal debito pubblico, mentre quasi la metà è costituito dal debito delle famiglie. Secondo le stime del Fmi il debito delle famiglie scenderà al 185 per cento nel 2017: per ottenere questo risultato le famiglie irlandesi dovranno destinare un quinto delle proprie entrate al pagamento dei propri debiti.
Secondo, quei lievi miglioramenti ottenuti a livello finanziario sono probabilmente imputabili all'approvazione dei mercati nel vedere applicate pedissequamente le misure volute dal Fondo monetario internazionale, piuttosto che al gettito proveniente dalla carbon tax.
Insomma, ben vengano le tassi sulle emissioni, ma l'Irlanda è ben lontana dal vedere la luce alla fine del tunnel. E c'è il legittimo sospetto che l'osannata rivoluzione verde sia un pretesto per indicare agli altri paesi europei una via d'uscita dalla crisi fatta di sacrifici, ingiustizie, ulteriori carneficine sociali.
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