di
Andrea Degl'Innocenti
20-09-2013
Il governo islandese sospende a tempo indeterminato le trattative per l'ingresso del paese nell'Unione europea. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee sono state il cavallo di battaglia della coalizione vincitrice durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori e' stata mantenuta.
L’Islanda e l’Europa si allontanano. Non geograficamente, s’intende: l’isoletta spersa nel mare del Nord resta sempre lì, a circa 1500 chilometri dalla Gran Bretagna. Ma politicamente, quello sì. Dall’interno dell’Althingi, il parlamento islandese, Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri della coalizione di centro-destra al governo da aprile, ha messo un freno alla procedura di adesione dell’Isola all’Unione europea.
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee erano stato il cavallo di battaglia dei vincitori durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori è stata mantenuta.
I negoziati non erano mai stati facili: c'erano alcune questioni spinose sulle quali l'isola avrebbe dovuto fare delle concessioni economiche a Bruxelles. L’Europa chiedeva all’Islanda di aderire alle normative europee relativamente a 30 punti, fra cui figuravano la libera circolazione di capitali, la politica economica e monetaria, le politiche di pesca e di sviluppo agricolo e rurale. Tutti punti su cui gli islandesi non sono più disposti a negoziare. Non dopo la crisi e le rivolte.
E poi c’era la denuncia pendente alla Corte di giustizia Ue per la bancarotta del 2008. E la questione del debito Icesave, per la quale l’Ue si era schierata a spada tratta a fianco di Inghilterra ed Olanda nel pretendere che il debito contratto dalla Landsbanki, banca privata ripubblicizzata in seguito alla crisi, venisse socializzato e gravasse sulle spalle dell’intera popolazione isolana.
La vittoria della coalizione di centro-destra alle ultime elezioni è passata anche, soprattutto, per la diffidenza degli islandesi nei confronti dell’Unione. Quella sovranità popolare che gli isolani si sono ripresi di fatto dopo la crisi, con le proteste prolungate che hanno portato alla caduta del governo nel 2009 ed il rifiuto di socializzare un debito ingiusto contratto da banche private, non verrà certo ceduta di nuovo in favore di Bruxelles.
Certo, è strano che a prendere questo genere di decisioni siano gli stessi partiti – e in parte gli stessi soggetti – che condussero il paese sull’orlo del baratro nel 2008. Ed il rischio che la questione europea venga strumentalizzata c’è. Ad esempio rischia di passare inosservato il fatto che, a distanza di quasi un anno, la nuova costituzione partecipata, simbolo stesso della “nuova Islanda”, approvata con un referendum dal popolo islandese nell’ottobre 2012, non abbia ancora passato il vaglio dell’Althingi. “Quale sarà il suo destino?”, si chiedono in molti; riuscirà mai ad entrare in vigore?
Tuttavia la decisione di sospendere i negoziati per entrare a far parte dell’Unione non può non essere condivisa. Nell’ottica degli islandesi, entrare in Europa rappresenterebbe una nuova fuga del potere e della sovranità verso l’alto, verso luoghi distanti chilometri e chilometri di oceano. Una fuga che gli islandesi non vogliono permettere.
PER APPROFONDIRE LEGGI IL LIBRO "ISLANDA CHIAMA ITALIA - STORIA DEL PAESE CHE RIFIUTO' IL DEBITO", EDIZIONI LUDICA
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