di
Elisa Magrì
16-05-2011
Il Rapporto sul Razzismo in Italia (Manifestolibri 2009) fotografa un Paese in cui centinaia di migranti sono stati oggetto di violenze dal 2007 al 2009 e l'informazione in proposito è spesso fuorviante e insultante. Si fa strada una nuova forma di razzismo o siamo di fronte alla riedizione di una tipologia già nota di emarginazione? Eppure il mondo del volontariato e dell'associazionismo si batte da anni contro le discriminazioni, promuovendo esempi di integrazione da rilanciare alle istituzioni.
Si può parlare di una deriva razzista oggi in Italia? A leggere il ricco e documentato Rapporto sul razzismo in Italia (Manifestolibri 2009), a cura di Grazia Naletto, diffuso dal sito Cronache di ordinario razzismo e realizzato da esperti di fenomeni storici, antropologici e sociali come Paola Andrisani, Sergio Bontempelli, Alberto Burgio, Annamaria Rivera e molti altri si direbbe che la situazione attuale non sia affatto da sottovalutare.
Provate anche solo a scorrere le pagine della seconda metà del saggio (pp. 153-241): novanta pagine per fotografare 2 anni di denunce e di soprusi ai danni degli immigrati, tutti perpetrati in Italia, dal Nord al Sud. I casi di violenze razziste in due anni sono quasi quattrocento e gli attori sono tanto le istituzioni, quanto i singoli cittadini; mentre le categorie più colpite sono gli immigrati e i profughi in generale, seguiti da Rom, Ebrei e Musulmani. Ma di cosa parliamo quando denunciamo il razzismo?
Secondo Grazia Naletto, vicepresidente di Lunaria, “se la parola razzismo è usata e viene usata nel linguaggio comune prevalentemente per indicare le discriminazioni e le violenze razziste compiute in ragione dei tratti somatici, dell'origine nazionale o etnica, oppure dell'appartenenza religiosa, anche la legislazione ha ormai riconosciuto, dedicandovi norme specifiche, che le discriminazioni colpiscono le persone anche in ragione del genere, dell'orientamento sessuale, dello stato di abilità, dello status e della classe sociale”.
Quest'ultimo aspetto in Italia è decisivo: è la retorica del “posto di lavoro rubato dallo straniero” a veicolare oggi la rabbia verso l'immigrato. Perciò, negli ultimi anni, i movimenti migratori dal Nord-Africa e dall'Europa dell'Est sono divenuti oggetto di una nuova e preoccupante forma di ostilità, a causa dell'ansia diffusa per la precarizzazione del lavoro e di una martellante campagna mediatica di allerta.
Bisognerebbe, allora, rivedere la sicurezza che abbiamo acquisito subito dopo la seconda guerra mondiale circa la nostra presunta nozione di 'modernità', grazie alla quale godremmo di una speciale immunità dagli stereotipi razzisti del nostro passato.
Per lungo tempo si è creduto che il razzismo fosse un “residuo dell'arcaico”, come spiega Alberto Burgio, secondo il quale si è fatta strada “un'immagine ideologica e consolatoria dell'Europa e della modernità, scevre da violenza o quanto meno dotate di anticorpi sufficientemente forti da scongiurare il rischio di riedizioni delle atroci vicende culminate nello sterminio nazista”. Eppure così non è stato: l'11 Settembre 2001 ha segnato il dilagare dell'islamofobia, mentre a Parigi l'allora Ministro degli Interni Sarkozy definiva i ribelli delle periferie racaille, 'feccia'.
La logica del razzismo, in realtà, è sempre la stessa: si isolano delle presunte identità collettive e le si contrassegnano di specifici caratteri morali. Anche se non diamo più la caccia alla 'razza', usiamo le parole 'etnia' o 'cultura' per riferirci in modo dispregiativo a determinati gruppi di stranieri. In questo senso, il linguaggio svolge un ruolo decisivo e le cronache fanno da collante al risentimento sociale.
Lo documenta con abbondanza di riferimenti Giuseppe Faso, direttore del Centro Interculturale Empolese-Valdelsa, tra i fondatori dell'associazione Africa Insieme di Empoli e della Rete antirazzista. La scelta del lessico con cui si parla degli immigrati, persino la posizione delle parole e i costrutti sintattici, uniti agli slittamenti semantici, giocano un ruolo strategico nella comunicazione.
Ci sono i casi di omissione, come quelli dei rapimenti di minori cui si dà ampio risalto, salvo omettere ogni notizia sull'esito del processo, conclusosi con l'assoluzione dei presunti rapitori. Non mancano le parole-schermo, come “badante” (risalente ad una dichiarazione del 2001, ripresa dai media, dell'onorevole Bossi); “clandestino”; “corsi di alfabetizzazione” o di “livello zero”.
Il linguaggio è la sostanza del discorso, solo che nella nostra vita ordinaria gli attribuiamo una funzione puramente accessoria. Vorrei soffermarmi solo su un caso riportato da Giuseppe Faso e che trovo degno di rilievo, se non altro perché ricorda una straordinaria sequenza di un film del 1972 di Marco Bellocchio ed interpretato da un magnifico Gian Maria Volontè, Sbatti il mostro in prima pagina.
Nell'esempio descritto da Faso abbiamo due brevi note di cronaca uscite sulla stessa colonna del Corriere della Sera, nella Cronaca di Milano del 9 Aprile 2004, di cui si riportano i titoli:
a) Rapina due donne. Arrestato marocchino
b) Difende un anziano. Autista picchiato.
Spiega Faso: “È da indicare che nel secondo caso il protagonista, indicato come 'autista', è un cittadino di origine salvadoregna, di cui, in quanto vittima, viene evitata l'indicazione della nazionalità”. In entrambi i titoli gli eventi: “Rapina due donne” e “Difende un anziano” presentano un soggetto sottinteso che attende di essere esplicitato nella seconda parte del titolo; tuttavia l'informazione è fornita in modo diverso.
Nel primo caso il soggetto è direttamente identificato con la nazionalità (“marocchino”) e posto, enfaticamente, alla fine del titolo; nel secondo caso, invece, la rilevanza è assegnata al fatto che il soccorritore sia stato picchiato, e si presta meno attenzione al fatto che fosse un autista. Giuseppe Faso dimostra, così, che gli strumenti dell'analisi linguistico-pragmatica non sono poi una specialità dei filosofi del linguaggio, ma possono tornare utili anche al lettore comune.
Il Rapporto sul razzismo inquadra efficacemente il fallimento delle politiche italiane migratorie dell'ultimo decennio (ne scrive il magistrato Angelo Caputo), sottolineando l'ambiguità sottesa dallo stesso ius migrandi, storicamente databile al XVI sec., quando i giuristi europei si occupavano di dare legittimazione giuridica alla conquista del Nuovo Mondo.
Tuttavia, spiega Caputo, “non si è mai andati oltre il generoso sforzo dottrinale: è prevalso, infatti, nelle politiche migratorie l'orientamento secondo cui dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo discende solo il diritto di lasciare la terra nativa, ma non quello di raggiungere un nuovo mondo”. Del resto il recente Rapporto 2011 di Amnesty International non fa che confermare le falle legislative nel dirimere i casi dei richiedenti asilo e delle violenze omofobe.
Eppure, a fronte di tali carenze da parte delle istituzioni e delle leggi, occorre ricordare le realtà che lottano contro il razzismo e che cercano di diffondere modelli positivi di integrazione. Una storia è quella di Africa Insieme a Pisa, “associazione laica che si batte sul territorio locale e regionale per i diritti dei migranti e per una piena e universale cittadinanza”.
Nata nel 1987, Africa Insieme fa parte dal 2006 del Progetto Rebeldia, un cartello di gruppi e associazioni, che riunendosi in una sede comune, hanno condiviso diverse esperienze e progetti legati ai temi dell'immigrazione e dei diritti civili. Africa Insieme assiste i migranti nelle vertenze burocratiche, organizza corsi di italiano, mantiene alto l'allarme nei confronti degli sgomberi e delle politiche repressive, denuncia le ingiustizie e promuove attività di solidarietà e di incontro fra gruppi diversi.
Un recente spot lancia un numero verde da contattare per denunciare, anche in forma anonima, i casi della nuova 'tratta degli schiavi'. I volontari delle associazioni come Africa Insieme agiscono 'dal basso' per provare a risanare il tessuto sociale e, soprattutto, per reagire al dilagare dell'indifferenza e del pregiudizio.
Sono un esempio dell'integrazione che si potrebbe realizzare in Italia, cosa che restituirebbe vitalità ai territori e promuoverebbe l'arricchimento culturale e sociale attraverso la creazione di strutture oggi per lo più assenti.