Quando nel suo libro "8 secondi. Viaggio nell'era della distrazione" intervista i vari esperti che lavoravano in passato per i giganti dell’high tech, emerge una specie di coscienza di aver costruito un mostro e lei nel libro pone queste riflessioni: “Non credo alle folgorazioni sulla via di Damasco, penso sia più legato al malessere che ti viene quando ti rendi conto che tutto ciò per cui stai applicando il tuo straordinario cervello abbia come unico scopo la schiavizzazione delle menti altrui; una specie di nausea, che ad un certo punto inizia a premere sullo sterno e non ti lascia più respirare quando sai che stai facendo qualcosa di cui vergognarti, per quanto sia qualcosa di molto ben remunerato”. Visto che un ragionamento del genere potrebbe essere applicato a tanti lavori simili che hanno come obiettivo solo il profitto infischiandosene delle pesanti conseguenze, perché così poche persone sentono quello che lei descrive così chiaramente e non agiscono di conseguenza?
«Io, al contrario di lei, mi stupisco invece che qualcuno ogni tanto riesca a uscire fuori dagli schemi. Non so quanto sia credibile la loro iniziale inconsapevolezza, come giurano. A loro discolpa, parlo di quelli che hanno invertito la rotta, c’è che si sono trovati sull’accento acuto della storia quando erano molto giovani. Un’età in cui ti poni meno domande circa le conseguenze delle tue azioni. Credo che in pochi di loro si chiedessero se quello che stavano mettendo in piedi fosse giusto. Sono meccanismi psicologici di autodifesa abbastanza ovvi: quando chiedi a qualcuno di questi guru dell’high tech se non trova imbarazzante passare le giornate a cercare il modo migliore per prosciugare il nostro cervello, ti risponde che quel business è fatto così. Guadagna nella misura in cui noi stiamo incollati allo schermo. Non credo sia molto diverso dall’assicuratore che ti rifila una polizza con mille clausole invisibili che sicuro non sono dalla tua parte, il trader che ti impacchetta titoli spazzatura o l’avvocato che fa di tutto per far scagionare il suo assistito colpevole: la risposta è sempre la stessa, è il mio lavoro. Personalmente penso che nella vita si possa sempre scegliere da che parte stare, ma mi rendo conto che per me è facile dirlo. Non ho mai fatto parte di una company che a fine anno mi stacca un assegno con una sfilza di zeri per non chiedermi se sia giusto o no fare così, per cui non posso conoscere l’ebrezza che ottunde le coscienze».
“Google, Facebook, Instagram, tutte le piattaforme fanno soldi vendendo la nostra attenzione a inserzionisti, che a loro volta cercheranno di venderci qualcosa che con buona probabilità compreremo, perché è proprio quello di cui ci hanno fatto capire che abbiamo bisogno. Una macchina infernale e perfetta che produce profitto, senza soluzione di continuità”. Lei descrive così il sistema appunto infernale dei bisogni indotti che è l’essenza stessa della società del consumismo ma tutto questo genera profitto, quindi crescita che è l’obiettivo a cui concorre ogni governo e che ci dicono sia il paradiso a cui ognuno di noi deve tendere. Come si esce da questa apparentemente insanabile contraddizione?
«Non so francamente come se ne possa uscire perché fatico a immaginare un mondo senza più cellulari, social, motori di ricerca, Spotify, Google, App per ogni cosa. Credo che qualsiasi dichiarazione di ritorno a una sedicente età dell’oro analogica sia non solo impossibile ma nemmeno auspicabile. Non si tratta di caccia alle streghe, come tuonano i difensori della tecnologia, secondo i quali il dilemma non sono i social, per citare il noto documentario di Netflix, ma siamo noi. Grazie, bella scoperta. Come dire, con le dovute proporzioni: non potete dare la colpa all’eroina se vi riducete come stracci, perché se l’avete presa vuol dire che qualche gorgo dentro ce l’avevate già, sennò vi andavate a prendere un gelato. Ma va? Peraltro, ricordo, come dicono i neuroscienziati, che noi siamo il risultato di quello che leggiamo, le persone che incontriamo, le esperienze che facciamo, i circuiti mentali che rafforziamo. Non credo alle svolte palingenetiche personali, e non farei troppo affidamento sulla volontà di cambiamento da parte di chi incassa miliardi di dollari da questo sistema. Credo però che potremmo iniziare a ipotizzare qualche azione concreta. In America un senatore repubblicano del Missouri, Josh Hawley, qualche tempo fa ha proposto un disegno di legge per limitare l’azione degli sviluppatori di software: vietare lo «scroll infinito», così come la funzione autoplay dei video di youtube. I social network, sulla base delle nuove regole, dovranno mostrare quanto tempo gli utenti passano online e avere un limite predefinito di massimo trenta minuti al giorno. Ovviamente il disegno è rimasto un disegno, appunto, e non si é tramutato nemmeno lontanamente in legge, ma é confortante sapere che ogni tanto qualcuno ci prova. Non è facile, perché non ci sono risposte semplici a problemi complessi. Dovremmo valutare seriamente la possibilità di cambiare il modello di business della rete: io ti do la possibilità di navigare nell’universo infinito del web e di connetterti col mondo, gratuitamente, in cambio io ti posso recapitare damigiane di messaggi pubblicitari. Non mi ricordo chi ha detto che, se Facebook, Google, Youtube fossero dei venditori di hot dog, le informazioni e i contatti sarebbero la senape – mentre i messaggi pubblicitari, il pezzo di carne, la parte succulenta insomma. Se pensassimo alle piattaforme come delle enormi succursali di agenzie di marketing, in grado di manipolarci e riprogrammare i nostri pensieri e i nostri desideri, ci apparirebbero meno attraenti: il più grande esperimento di manipolazione di massa mai avvenuto prima. Se dovessimo pagare per ogni post o foto che andiamo a controllare, se un algoritmo non andasse a pescare nel prisma delle possibilità della rete quello che può attirare la nostra attenzione per trasformarsi in un lauto dividendo per le compagnie, forse non staremmo sempre a scrollare il telefono. Non basterebbe a arrestare la nostra dipendenza (ammesso che ci sia qualcuno disposto a accettare di pagare un servizio ora ingannevolmente gratuito, non credo) ma contribuirebbe a stemperarla».
Parlando di Zuckerberg e company dice che pensano di avere una missione divina cioè un aspetto assai più inquietante e pericoloso di avere il solo profitto come faro illuminante. Che conseguenze potrebbe avere per l’umanità questa visione messianica di persone che praticamente hanno potere economici illimitati?
«Sì, mi aveva colpito l’intervista di uno di questi whistleblower, García Martínez, ex analista della Goldman Sachs, ex dirigente di Facebook e ex qualcos’altro. Diceva che gli americani, a differenza degli europei che sono più pragmatici, hanno nel dna tutti una forma di evangelismo, anche se non ha necessariamente più a che fare con la religione in senso stretto: “Gli americani ancora credono in qualcosa a cui dedicare la propria vita. Voi guardate con sospetto alle manovre di Google o di Facebook pensando che ci sia sempre un ritorno economico o qualche oscuro piano. Ma le cose non stanno così. Dietro c’è una nuova forma di religione. E per questo ancora più religiosa». Non ci avevo mai pensato, ma a me non fa dormire tranquilla chi si crede Dio, e ha pure i mezzi economici per farlo. Fosse anche il più grande filantropo del pianeta. Preferisco che il potere non ambisca alla teofania, ma capisco che quando hai in mano un impero il dubbio di essere immortale ti venga: il cofondatore di Google Larry Page, anni fa ha creato una compagnia (Calico, una costola della casa madre) con l’obiettivo di sconfiggere la morte, una deplorevole e seccante eventualità per chi non conosce confini. Non si è mai capito bene cosa facciano lì dentro, ma solo l’idea di crederci e investire un sacco di soldi per trovare il modo di vivere per sempre è un segnale di disallineamento con la realtà. Abbiamo permesso un business che non conosce il senso del limite, che crede di non dover rendere conto a nessuno, esattamente come Dio. A me fa paura».
Lei tocca un punto centrale quando risponde metaforicamente al professor Levitin sulla possibilità di gestire gli stimoli che ci giungono dalle tecnologie informatiche, scrivendo: “Come se potessimo ancora decidere qualcosa e riprendere il controllo delle nostre vite. Come se non passassimo più di un terzo delle nostre giornate con gli occhi inchiodati ad un aggeggio progettato per innescare il rilascio di dopamina (la molecola del piacere e della dipendenza) e fiumi di cortisolo (l’ormone dello stress). Come se al punto in cui siamo, fosse ancora possibile interrompere questo loop di gratificazione e ansia, ansia e gratificazione in cui siamo sprofondati”. E ancora: “Siamo macchine complesse e misteriose, non è sufficiente sapere che un’azione è sbagliata per non ripeterla più, figuriamoci eliminare una ossessione”. “Certo l’asimmetria in questo gioco fra noi e “loro”, i padroni della Slicon Valley, che fanno soldi intercettando le nostre vulnerabilità, prendendole a martellate finché le crepe diventano abissi che fanno crollare tutto, è tale da far sembrare ogni azione di resistenza inutile. Sicuro se c’è qualcosa di fragile o di sghembo o di rotto dentro di noi, un algoritmo lo scoverà e lo trasformerà in un lauto dividendo per gli azionisti della società. O per qualche scopo preciso”. Quindi siamo senza speranza? Zombies a vita?
«C’è un libro di Svetlana Aleksievič , premio nobel per la letteratura nel 2015, che io ho trovato illuminante: si intitola Solo l’amore salva dall’ira. A un certo punto parla del suo mestiere di scrittrice e reporter di guerra, ma può valere per tutti noi, per il nostro rapporto con la rete, con gli altri.. Dice: “Ognuno è libero di prendere da me quello che vuole, come ognuno prende dalla realtà ciò che può. Quindi: al di sopra di ciò che scriviamo e fotografiamo, è la personalità che interviene. La tua personalità è l’unica antenna che hai, ed è ciò che le hai permesso di diventare, oppure è un prodotto delle tue caratteristiche innate, dei tuoi talenti. Più lunga è la tua antenna, più grande e ricca ti apparirà la realtà. E diventerà sempre più realtà... Purtroppo non esiste una strada più semplice. Più sensibile è la nostra antenna, più è precisa e capace di captare segnali e traiettorie invisibili, più forse riusciremo a trovare la strada in questo caos in cui siamo immersi. La realtà è interpretazione e ognuno si racconta la sua storia. Sta a noi il compito difficile di annodare i milioni di fili che si intrecciano sul nostro schermo, carpire quelli che vediamo e quelli che non si possono «né vedere, né ascoltare ma solo avvertire», come dice la Aleksievič. Il premio Nobel Daniel Kahneman – uno che per quarant’anni ha studiato il nostro comportamento e la nostra inesauribile capacità di sbagliarci–, sostiene che non possiamo fare niente per sradicare i pensieri veloci e istintivi, le trappole mentali, quello che gli studiosi chiamano il sistema cognitivo «numero 1», perché i pregiudizi evolutivi sono incistati dentro di noi, così come le nostre percezioni tribali. Possiamo però allenare il pensiero lento e critico, il nostro sistema cognitivo "numero 2" e farlo diventare più sofisticato e profondo, affinché ci aiuti a non fidarci troppo di noi stessi. A prendere le distanze da noi. Tipo un allarme che inizi a suonare quando stiamo per farci del male. Non vedo altre vie di uscita».
Lei nel suo libro afferma: “Non esistono scorciatoie e nessuno ormai crede più alle doti rigeneratrici della rete: tante più informazioni circolano, quanto meno diventano intellegibili e si trasformano in conoscenza”. Ci può spiegare cosa è e cosa comporta l’information fatigue syndrome, cioè l’affaticamento da sindrome di informazioni?
«Di recente ho riascoltato una vecchia intervista a Umberto Eco, che come tutti i grandi aveva doti profetiche. Diceva più o meno così: La conoscenza consiste nel filtraggio delle informazioni. Troppe cose insieme fanno rumore e il rumore non è mai uno strumento di conoscenza. Nella vita di tutti i giorni ci imbattiamo in un sacco di cose e capire quali sono irrilevanti e quali no, discernere, saper dimenticare è fondamentale. Noi siamo diventati additivi, non narrativi. E questo non solo è motivo di stress e fatica enorme, ma provoca una specie di collasso epistemico. Più ingurgitiamo input, meno siamo in grado di processarli. Sono poche le informazioni che passano dalla memoria di lavoro a quella di lungo termine, abbiamo bisogno di uno sgocciolamento lento e regolare, come avviene quando leggiamo un libro. Il contrario di quello che facciamo quando saltiamo da un link all’altro in rete. Andrea Gentile, nel libro dedicato all’apparizione, ha trovato credo le parole più belle per spiegare lo stato di sovrastimolazione che provocano questi rubinetti informativi che ci inondano dalla mattina alla sera: “Ipotizziamo di svuotare una vasca da bagno con un ditale: operazione lunga, che ha bisogno di concentrazione e ostinazione. Soprattutto ha bisogno di un unico rubinetto. Ipotizziamo di svuotare la stessa vasca da bagno con lo stesso ditale ma con molti rubinetti. Mentre corriamo da una parte all’altra, il ditale traboccherà. Sposteremo un miscuglio di gocce da rubinetti diversi, e che non arriveranno, necessariamente, dalla stessa sorgente”.
Fine seconda parte