“L’esperienza del dubbio è sempre un ottimo vaccino con cui andarsene in giro per il mondo”/3

Si conclude con la terza e ultima parte l'intervista a Lisa Iotti, autrice del libro "8 secondi. Viaggio nell'era della distrazione". La sua è un'analisi impietosa della dipendenza da una tecnologia digitale che condiziona mostruosamente il nostro modo di divere.

“L’esperienza del dubbio è sempre un ottimo vaccino con cui andarsene in giro per il mondo”/3

SEGUE DALLA PRIMA E SECONDA PARTE

Quando cita il fatto che “non possiamo ignorare una notifica, perché siamo stati progettati per reagire agli stimoli superficiali e ai rumori. E’  biologico”, viene il tragico sospetto che tutta questa tecnologia sia stata studiata apposta per utilizzare nostri aspetti e reazioni naturali per chiuderci in gabbia e farcici rimanere per sempre, non essendoci soluzione di continuità. Cosa ne pensa?

«E’ così, non è un sospetto, è una delle poche certezze che abbiamo».

La cartina di tornasole che ci sia qualcosa di molto pericoloso è che non pochi degli inventori e i guru di queste tecnologie o ne sono usciti e ora li criticano ferocemente, oppure non permettono ai loro figli di usarle, lei fornisce in merito una informazione che ha  dell’incredibile: “Nella Silicon Valley c’è una scuola steineriana dove non ci sono computer, smartphone e playstation e dove vanno proprio i figli di chi lavora per le massime aziende di realtà virtuale”. Lei stessa ha chiesto spiegazioni alla scuola di tale aperta e palese contraddizione ma non gli è mai stato risposto. Quindi nota ancora che: “Nella Silicon Valley molti di quelli che lavorano nello sviluppo delle tecnologie digitali non lasciano usare ai propri figli i device; cioè, non si sognerebbero mai di mettere in mano ai loro figli ciò che hanno progettato per i figli del resto del mondo. Da Tim Cook che non fa usare i social ai nipoti, a Bill Gates che ha vietato ai figli il telefono fino all’adolescenza. E che dire di Athena Chavarria, che ha lavorato come assistente esecutivo a Facebook e ora nel braccio filantropico di Mark Zuckerberg e che al New York Times ha detto senza tanti giri di parole: “Sono convinta che il diavolo viva nei nostri telefoni e stia devastando i nostri figli”. Ma se leviamo o limitiamo gli smartphone ai nostri figli, poi si sentiranno discriminati e disadattati nei confronti di chi li ha?

«Guardi, io personalmente vorrei avere il numero di cellulare di Bill Gates solo per chiedergli come diamine ha fatto a non fare usare ai suoi figli il cellulare. Io ero una molto severa e motivata a dire no ma mi hanno preso per sfinimento e posso garantire che una volta che gli dai in mano questa scatoletta, nessuna forma di controllo è più possibile. E quando dico nessuna intendo nessuna. Troppo facile dire che se un ragazzino usa in modo improprio il cellulare, è colpa dei genitori. Lo smartphone è qualcosa che non gli dovresti mai mettere in mano: ma una volta che l’hai fatto, e lo fai, non è più possibile riuscire a dominarlo, su questo facciamoci pace. Ho amici cari che hanno figli cresciuti dall’età di tre anni alla scuola steineriana, dove il massimo dell’esperienza futuribile è giocare con dei pastelli a cera e all’elastico in cortile, ma che hanno preteso il cellulare e ci stanno incollati dalla mattina alla sera. Purtroppo, la cosa vera è che non esistono vaccini. Per rispondere alla sua domanda: se non glielo diamo si sentiranno dei disadattati? Sì, assolutamente. Voglio conoscere quel genitore capace di infliggere al proprio figlio qusto stato».

Lei cita vari guru della tecnologia e super manager che prima hanno contribuito a creare questo inferno e poi ora si pentono e ne dicono peste e corna, facendo comunque corsi, seminari, convegni, diventando consulenti, scrittori di questo e quello, quindi continuando a incassare parecchi soldi. Sembra che le conversioni sulla via di Damasco di queste persone siano una specie di assicurazione sulla vita per la quale qualsiasi, cosa si faccia, comunque ci guadagnano. Lei sintetizza il concetto in una frase quanto mai azzeccata: “Passare dal ruolo di peccatore a quello di illuminato garantisce uno status di tutto rispetto”. Lei stessa cita uno di questo novelli San Paolo, tale Rosenstein inventore del Like, il quale afferma che “Una volta che ti accorgi degli effetti collaterali, devi riconoscerlo e cambiare il tuo comportamento”. Giustamente lei chiosa. “Non semplicissimo dopo che hai abituato più di cinque miliardi di persone ad avere in tasca uno stimolatore continuo del loro sistema dopaminergico, una straordinaria macchina da soldi che tu hai ideato”. Ma sono furbi loro o scemi noi?

«Credo nessuno dei due: è la vita e noi non ci possiamo fare nulla. Nonostante il fastidio che mi provocano queste folgorazioni, io credo alla loro buona fede iniziale. Ma la mancanza di consapevolezza del male che si compie ai miei occhi non è meno colpevole e dannosa della volontà di nuocere. I racconti di questi pentiti sono un’illuminante mappa dell’animo umano, della mancanza totale di visione e di sguardo rispetto alle conseguenze dei nostri gesti. Inventare tra una partita di ping pong e una riunione in boxer una funzione in grado di mandare in pappa il cervello di miliardi di persone o il simbolo di una notifica che ci tenga svegli la notte, svuotando i nostri pensieri e le nostre anime, per me è un po’ più di un “effetto collaterale”, come lo chiamano loro».

Lei fa delle considerazioni amare sullo spreco di vita a cui stiamo assistendo. Cita il Professor Tim Wu: “La comodità è tutta destinazione e niente viaggio. Compiliamo caselle, protocolliamo risultati e lo scambiamo per vita”. E scrive pensando alla diffusione dei telefonini nel mondo:” Immagino miliardi di dita ticchettare su tastiere invisibili mentre alle spalle scorre la vita, anche lei invisibile”. Il fatto che la vita scorre e noi non ce ne accorgiamo nemmeno, non è una visione eccessivamente negativa?

«Effettivamente mi vengono in mente visioni più spassose. Magari mi sbaglio, ma io ho l’impressione che le persone – a partire da me – siano sempre meno presenti a sè stesse e sempre meno coscienti. La consapevolezza vuol dire rendersi conto di quello che ci accade, che non deve essere necessariamente qualcosa che non va, anzi: è anche accorgersi di un brivido, di una bellezza, un profumo, uno sguardo… Un’apparizione  porta sempre con se un mutamento e fa si che la vita non sia una sequenza sbiadita di dispersioni.  Ma perché ci sia un’apparizione – come dice Andrea Gentile, nel suo ultimo libro,  “bisogna andare incontro allo shock dell’ignoto; predisporci continuamente alla contemplazione, che non è stare fermi ma andare incontro al mondo, espandere il proprio templum”. E’ dal vuoto che arriva il nuovo: ma nella nostra vita iperconnessa, non c’è più uno spazio libero, un pertugio in cui possa avvenire una rivelazione. L’algoritmo, che tesse i fili dei nostri clic, non conosce silenzi. Viviamo un concentratissimo stato di distrazione che certo ha mille cause, ma che i nostri device catturano, potenziano e amplificano all’infinito: siamo incantati e  inghiottiti in un altrove, attraverso i nostri schermi, come Narciso al fiume. E  sappiamo  che non ha fatto una bella fine».

Nel libro scrive che solo le persone ricche possono permettersi costosi corsi di disintossicazione o di limitare l’uso di questi dispositivi. Però ci sono persone che reagiscono a questo strapotere e non sono ricche, anzi. Forse più che essere ricchi di soldi, bisogna essere ricchi di significato? Non pensa quindi che se avessimo una realtà e relazioni più arricchenti, anche in senso spirituale, facessimo lavori che ci diano veramente soddisfazione e non siano dannosi per gli altri e per l’ambiente e magari una relazione più vicina alla natura, non avremmo bisogno o tempo per distrazioni così futili? Non pensa che forse siamo così dipendenti da queste massicce dosi di vacuità per mancanza di bellezza nella nostra esistenza?

«Indubbiamente, e prova ne è che quando siamo molto presi da qualcosa o da qualcuno, ci dimentichiamo di andare costantemente sul cellulare. Ma non tutti noi hanno una vita sentimentale o emotiva o lavorativa così appassionante, la maggior parte di noi galleggia in una neanche troppo aurea mediocritas. Ma il punto, lo ribadisco, non è solo questo: in rete noi iperstimoliamo e rafforziamo delle regioni neurali che sono le stesse che utilizziamo poi nella vita al di fuori dallo schermo.  Ci inondiamo di dopamina on line  ed  è molto difficile trovare il modo di gratificarci nell’offline. Le persone e la realtà tendono a essere molto più noiose e meno eccitanti di un reel di Instagram».

Visto che lei ha dei figli, ritiene che ci sia speranza e che tipo di futuro ci potrà essere per loro?

«In questo momento non riesco ad avere nessuna speranza. Credo che questi mesi di pandemia siano stati – al di là della tragedia sanitaria e economica – un olocausto per una generazione di ragazzi che aveva appena messo una punta di naso nella vita. Li abbiamo rinchiusi per mesi dentro a un acquario, incollati davanti a uno schermo dieci dodici ore al giorno, il loro unico filo diretto col mondo. Insieme ma soli, per citare il titolo di un libro famoso. Non metto in discussione la necessità di questa decisione, non spetta a me farlo, ma sono convinta che  le conseguenze di questo isolamento digitale sui più giovani saranno pesantissime». 

 

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