Sulla situazione dei boschi, il loro stato di salute e la loro importanza in Italia si parla sempre di più. Una lettura interessante è il libro La resilienza del bosco di Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale presso l’Università statale di Milano. Autore che su alcune posizioni a difesa dei boschi oggi in Italia ha esoresso anche alcune critiche. Lo abbiamo intervistato.
Le foreste sono un mondo in continua e lenta evoluzione; quanto profondo è l'impatto che produce l'uomo sui lenti equilibri naturali? Cosa pensa della deforestazione che si sta praticando indiscriminatamente ovunque nel mondo?
«L'uomo e le foreste sono inestricabilmente legati. Se gli alberi stanno benissimo anche senza di noi, non è vero il contrario, perché dipendiamo da loro per ottenere cibo, acqua, aria, protezione dai rischi idrogeologici, materiali rinnovabili ed energia. È quindi inevitabile, soprattutto nei paesi densamente popolati come l'Italia, che si debba cercare un punto di incontro tra la conservazione di tutto ciò a beneficio delle generazioni future e l'utilizzo sostenibile della risorsa. Questo incontro è possibile se manteniamo la nostra azione entro i limiti delle capacità di rigenerazione del sistema. Un chiaro esempio del superamento di questo limite è la deforestazione tropicale, quando si sostituisce la foresta con altri usi del suolo agricoli o pastorali che sono scarsamente efficienti, a causa dei suoli poveri su cui vengono realizzati, e non tengono conto del valore non monetario che viene perduto con la scomparsa della foresta e dei suoi servizi in termini di biodiversità, immagazzinamento del carbonio, regolazione del ciclo dell'acqua globale. Un secondo esempio è l'impatto che i cambiamenti climatici generati dall'uomo stanno avendo sulle stesse foreste e sulla loro capacità di generare benefici per la società: lo vediamo con gli incendi non solo in Australia, ma anche negli Stati mediterranei dove si stanno già verificando con una frequenza e una severità superiore. Al loro intervallo storico di variabilità, rischiando di mettere in crisi la pur alta capacità di resilienza del bosco. Un buon punto d'incontro invece si può raggiungere ad esempio con la selvicoltura naturalistica, che mira non solo a ottenere legno a un ritmo compatibile con il suo tasso di accrescimento, ma anche ad aumentare la resistenza e resilienza del bosco a quei fenomeni estremi a cui viene sottoposto a causa nostra, e a preservarne o potenziarne le funzioni protettive nei confronti delle comunità, che richiedono che la struttura del bosco, cioè il numero di alberi, le loro dimensioni e la loro disposizione nello spazio, rientrino entro certe soglie fisiche. Il tutto rispettando, anzi assecondando le modalità di sviluppo naturali della foresta, come la riproduzione naturale da seme, la regolazione della quantità di luce che fa crescere gli alberi, la scelta di conservare degli alberi a gruppi affinché si aiutino a vicenda. Poiché di legno abbiamo bisogno, anche per sostituire materiali più impattanti climaticamente come il cemento, l'acciaio, la plastica o gli stessi combustibili fossili, è opportuno che la scienza ci aiuti a capire come prelevarlo in modo sostenibile e senza generare impatti a lunga distanza».
Si dice che le foreste italiane stiano aumentando, ma è davvero così? Sono foreste davvero sane e in equilibrio o assomigliano di più a piantagioni di alberi?
«Secondo i dati dell'Istat, le foreste sono aumentate dell'80% rispetto alla superficie che occupavano nel 1970. Si tratta di un'espansione naturale soprattutto nei territori abbandonati dall'agricoltura. Queste nuove foreste sono quindi ancora molto giovani, ma cresciute in modo naturale e rappresentano un grande potenziale sia per il loro assorbimento di carbonio che per la produzione di materiale rinnovabile e sostenibile. Anche nelle foreste più vecchie si registra una costante crescita del volume degli alberi, come si può facilmente constatare confrontando i dati dell'inventario forestale nazionale del 1985 con quelli del 2005. Un aumento che si registra a carico di tutti i tipi di foresta, tranne che per i querceti che sono invece soggetti alle grandi pressioni dell'uomo nelle aree di pianura. In Italia non esistono foreste vergini, e sono pochissimi i lembi di foresta che non vedono l'azione dell'uomo da più di 50 anni, come la riserva di Sasso Fratino o le faggete vetuste recentemente entrate nel patrimonio mondiale dell'Unesco. Ma questo non vuol dire che le foreste esistenti siano piantagioni di alberi: in gran parte di esse le piante si riproducono con i propri semi oppure sfruttando la propria capacità di moltiplicazione vegetativa, come nel caso del ceduo, e la gestione cerca di assecondare i meccanismi naturali. Anche nei rimboschimenti, eseguiti in gran parte nel periodo tra le due guerre con scopi che esulavano dal buon funzionamento della foresta, hanno svolto il loro compito di protezione del suolo e miglioramento dell'humus, e sono oggi l'oggetto di una gestione che punta decisamente alla loro rinaturalizzazione facilitando l'ingresso delle specie autoctone. Un buon esempio in questo senso è il progetto SELPIBIO Life. La minaccia più urgente a cui sono soggette tutte le foreste italiane è invece il cambiamento climatico è il tuo effetto sulla siccità e sugli eventi estremi, che minacciano non solo le foreste ma anche la nostra comunità. anche per questo è opportuno da un lato elaborare strategie per aiutare i boschi a sopportare condizioni per loro inedite, e dall'altro mettere in atto tutte le azioni per diminuire la nostra impronta di carbonio, incluso un utilizzo più ampio del legno, soprattutto come materiale a lunga durata e a bassa impronta di emissioni».
I boschi fortemente sfruttati come i nostri cedui sono resilienti allo stesso modo delle foreste da lei descritte nel libro o sono ambienti più fragili e perché?
«I boschi cedui sono boschi di latifoglie tagliati periodicamente e più frequentemente rispetto ai boschi di alto fusto, nei quali gli alberi si rinnovano dal ceppo grazie alla loro capacità di moltiplicazione vegetativa. Un terzo dei boschi italiani sono cedui, una delle percentuali più alte in Europa se non la più alta. E' quindi necessario chiedersi se questa forma di gestione del bosco esponga gli alberi e il suolo a un maggiore o minore stress rispetto alla gestione alternativa ad alto fusto, con cicli più lunghi e riproduzione basata sui semi. La ricerca scientifica sul ceduo purtroppo non è particolarmente sviluppata. Inoltre, le risposte variano in base alla specie, al tipo di suolo, al tipo di ceduo (semplice o misto ad alberi di alto fusto), e alla scansione temporale degli eventi climatici (es. in coincidenza dei periodi di riproduzione o meno). In generale, il ceduo è senz'altro meno vulnerabile del bosco di alto fusto agli schianti da vento, grazie alla maggiore flessibilità dei giovani alberi e alla loro capacità di rigenerarsi dalla ceppaia qualora questa venga danneggiata (una capacità che alcune specie come il castagno mantengono molto a lungo, altre perdono verso i 40-50 anni, come il faggio). Relativamente agli incendi, il ceduo subisce una mortalità più alta, perché i fusti sono più ramosi e di minori dimensioni rispetto a una fustaia, quindi più esposti ai danni da fuoco - ma se il ceduo è ancora in età favorevole alla riproduzione da ceppaia, la sua risposta al fuoco può essere superiore. Per quanto riguarda la siccità, invece, se colpisce nel momento della riproduzione è sfavorevole in entrambi i sistemi, perché compromette sia la germinazione dei semi che lo sviluppo dei nuovi ricacci - ma poiché il ciclo del ceduo è più breve, la probabilità di una coincidenza tra riproduzione e siccità è un po' più alta. Per siccità che colpiscono piante già sviluppate i risultati sono contrastanti. Alcune ricerche hanno mostrato riduzioni di crescita più pronunciate nelle piante da seme, altre nelle piante del ceduo - anche lavorando sulla stessa specie. I tagli più frequenti potrebbero, negli ambienti aridi, peggiorare il bilancio idrico del suolo. Esistono però forme di gestione per aumentare l'adattamento anche dei cedui, come il diradamento dei ricacci, che riequilibra la minor quantità di acqua disponibile con il numero di piante che se ne devono nutrire. Indubbiamente la ricerca deve svilupparsi di più per rispondere a questa domanda».
Senza alberi non potremmo vivere ma pare che questo interessi poco chi abbatte interi boschi per alimentare centrali a biomasse che in pochi minuti utilizzano il legno a cui sono serviti molti anni per crescere. Inoltre con l'abbattimento indiscriminato si creano problemi enormi in un paese come l'Italia che ha già equilibri idrogeologici fragilissimi. Per non parlare degli animali che si ritrovano senza il loro habitat e l'eliminazione della preziosa biodiversità. Esistono secondo lei alternative e soluzioni a questa pratica?
«La produzione energetica da biomasse è uno snodo centrale delle questioni ambientali e climatiche del nostro tempo. Da un lato la produzione di energia da biomasse ha il potenziale di sostituire quella prodotta dai combustibili fossili. Anche la combustione del legno genera carbonio, ma il ciclo con cui questo carbonio viene emesso e riassorbito (dagli stessi boschi che ricrescono dopo il taglio o da altri boschi che crescono contemporaneamente) è più breve rispetto ai tempi di risposta del clima terrestre alla variazione di concentrazione di CO2 - al contrario invece di quanto accade emettendo nell'atmosfera carbonio fossile, che non era in circolazione da diverse centinaia di milioni di anni. Perché questo avvenga è naturalmente necessario che la velocità di prelievo del legno non superi quella di crescita o ricrescita del bosco. Inoltre l'impiego climaticamente più efficiente del legno è quello in cui i materiali durano a lungo e a lungo tengono intrappolato il carbonio, come per gli impieghi in edilizia in cui si può sostituire materiale più climaticamente impattante come acciaio o cemento. Inoltre, le grandi centrali a biomassa per produrre energia elettrica sono particolarmente inefficienti, e per soddisfare il loro fabbisogno rischiano di generare uno sfruttamento insostenibile di foreste locali o anche globali, con impatti significativi sulla sostenibilità ambientale, climatica , sulla biodiversità e il dissesto. E' chiaro quindi che i tagli non possono essere "indiscriminati", ma progettati con attenzione a tutti questi aspetti. L'alternativa percorribile a mio parere sono i piccoli e medi impianti per il teleriscaldamento (naturalmente dotati delle più recenti tecnologie di controllo delle emissioni di particolato). Molti comuni montani possono effettivamente diventare climaticamente più virtuosi utilizzando questa tecnologia, che permette di non ricorrere a combustibili fossili e, mantenendosi di piccola scala, è compatibile con una gestione dei boschi locali rispettosa dei tassi di accrescimento e dei servizi di regolazione del bosco, magari integrata con un maggiore utilizzo del legno per usi materiali (i cui scarti, che comunque si decomporrebbero, possono alimentare gli impianti a biomassa)».
Il mondo vegetale è conosciuto parzialmente e solo recentemente stanno emergendo le correlazioni tra organismi anche diversi tra loro; cosa abbiamo da imparare da un bosco?
«Le connessioni che si intrecciano tra tutte le componenti degli ecosistemi - compresi noi. Gran parte del problema ambientale che viviamo è dovuto alla nostra innata incapacità di percepire le conseguenze delle nostre azioni su grandi distanze, nello spazio (penso all'importazione di deforestazione nei nostri prodotti) o nel tempo (il concetto della sostenibilità generazionale che Greta Thunberg incarna alla perfezione). Se ci percepiremo davvero come l'agente potente che siamo rispetto non solo al clima, ma anche alla sopravvivenza delle altre persone sul pianeta, forse le nostre logiche politiche, economiche e di comunità potranno cambiareı.
La società umana si regge su equilibri molto fragili (basti vedere i fattori economici), ma le foreste su quali equilibri si basano e quanto sono efficaci e persistenti?
«Soprattutto quando consideriamo una foresta nel suo complesso, e non un singolo albero, la resilienza del sistema è molto alta. Le foreste esistono da 500 milioni di anni, hanno superato cinque estinzioni di massa, eruzioni vulcaniche planetarie, glaciazioni e l'impatto di asteroidi, che sono stati fatali per molte altre specie. Quando uno di questi eventi, oppure un incendio o una tempesta di vento, colpisce una foresta, gli individui possono morire, ma al tempo stesso si aprono nuove opportunità per altri individui o specie di alberi che possono ricolonizzare l'area colpita. Anzi, questi eventi sono veri e propri agenti di cambiamento e di rinnovazione, a cui le piante hanno imparato ad attrezzarsi grazie a milioni di anni di evoluzione. La stessa capacità di ricacciare dal ceppo, di cui parlavamo prima, è una risposta a eventi dannosi di questo tipo, che garantisce la sopravvivenza dell'albero e del suo patrimonio genetico. Il problema sorge perché oggi esistiamo anche noi umani, e alle foreste rivolgiamo domande e necessità ben precise - protezione, biodiversità, materie prime rinnovabili, calore, controllo del clima, benessere fisico e spirituale. I cambiamenti a cui una foresta va incontro se esposta a questi "disturbi", ancor più se divenuti più intensi e frequenti, come accade in conseguenza della crisi climatica, potrebbero rendere le foreste e le loro transizioni temporaneamente o permanentemente incompatibili con le nostre esigenze. Se la foresta amazzonica si trasformerà in una savana non sarà un problema per il Pianeta, che si regolerà ai nuovi livelli di carbonio atmosferico e di vapore acquo adeguando il clima di tutti i suoi territori, ma per noi, che vivremo in un mondo ancora più caldo, secco, meno fertile e povero di biodiversità. Dobbiamo quindi preoccuparci che proprio quelle connessioni che esistono tra uomo e foresta, pur riconoscendo la naturale propensione al cambiamento che caratterizza l'ambiente naturale, non cambino così tanto da rendere la nostra sopravvivenza un obiettivo troppo difficile da raggiungere».
Cosa pensa dei negazionisti climatici che spesso sono pagati dalle multinazionali dei combustibili fossili per rallentare la presa di coscienza sui pericoli che corriamo dal non agire?
«Anche nel caso degli incendi australiani abbiamo visto i negazionisti all'opera: sembra che abbiano attivamente diffuso le notizie false sui supposti "piromani", per distrarre l'opinione pubblica dal ruolo determinante giocato dal cambiamento climatico e dalla inusuale siccità nel rendere la vegetazione così infiammabile (e comunque ignorando che la maggior parte delle accensioni è dovuta, in quella circostanza, al fulmine). Dobbiamo stare molto attenti: gli interessi economici legati ai combustibili fossili sono così alti che non è difficile leggere notizie manipolate, che sembrano credibili perché si appellano ai nostri istinti, alla paura, al bisogno di trovare un colpevole (ma ci indirizzano a quello sbagliato). Occorre educare noi stessi, e soprattutto i giovani, alla lettura critica delle informazioni. Se qualche ricetta sembra troppo semplice, miracolistica nella sua efficacia (come il messaggio che piantare alberi sarebbe sufficiente a risolvere la crisi del clima) è con tutta probabilità errato, manipolato e diffuso ad arte».
Cosa possiamo imparare dal meraviglioso mondo del bosco e della sua resilienza, visti i tempi durissimi che ci attendono e in cui la nostra resilienza sarà fondamentale?
«Che il cambiamento è la regola e non ci deve spaventare. Che tutto è connesso con tutto, e così come siamo stati in grado di incidere - per la prima volta nella storia - sul clima del pianeta, saremo anche in grado, se agiamo come comunità, di sviluppare un mondo in cui vivere più armoniosamente insieme alle altre specie, godendo dei benefici della natura senza necessariamente esaurirli. Solo allora l'Antropocene, l'epoca degli uomini, sarà veramente iniziato».
Dichiara che gli incendi colpiranno sempre più duramente il Mediterraneo anche in Italia, cosa si può fare per prevenire questa situazione?
«Gli incendi si combattono in tre modi: con la prevenzione (il mezzo più efficace), la lotta e l'auto-protezione. La lotta agli incendi diventerà sempre più costosa e inefficace di fronte al crescere della frequenza e severità di questi fenomeni. Per questo è necessario spingere l'acceleratore sugli altri due tipi di risposta. Come vediamo in Australia, il fuoco ha bisogno di condizioni precise per svilupparsi: la siccità che rende infiammabile la vegetazione, e la contiguità della vegetazione stessa su ampie superfici. Si noti che non ho parlato delle fonti di accensione: qualsiasi sia la causa che accende la prima scintilla, se la vegetazione non è disponibile a bruciare l'incendio non si svilupperà. Per questo lavorare sul territorio ha una grande efficacia. Come? Analizzando con cura le aree a rischio (esistono simulatori che riproducono al computer il probabile percorso di un incendio in base al tipo di vegetazione, alla topografia e ai parametri meteorologici) e effettuando in quelle più pericolose interventi di modifica della vegetazione in modo da renderla meno infiammabile o meno contigua nello spazio. Anche in Italia si sta sviluppando la tecnica del fuoco prescritto, che prevede l'applicazione esperta e scientificamente basata di una fiamma bassa su piccole superfici di territorio per ridurre la quantità di vegetazione più facilmente infiammabile (foglie e rami secchi a terra, arbusti e rami bassi). In ogni caso, la prevenzione più efficace è contrastare l'abbandono dei territori, mantenendo quel mosaico di boschi, aree coltivate, prati e aree umide che caratterizza il paesaggio italiano e fa da barriera naturale contro la propagazione delle fiamme».