Capita a volte nei corsi di formazione su come cambiare vita e lavoro, negli incontri pubblici, nei commenti o nelle domande poste in queste occasioni, che ci sia chi dice che ormai è vecchio e quindi non vale più la pena cambiare o comunque “non c’è più tempo”. E per “vecchio” intende magari che ha quaranta o cinquanta anni…
Non ci stupiamo di simili pensieri visto che la società ci vuole sempre giovani e ci spinge continuamente ad accelerare come se la vita durasse fino a venti anni e poi tutto il resto è roba da vecchi.
Ma ci sono giovani che a vent'anni sono già morti, nel senso che hanno entusiasmo e voglia di fare sottozero e ci sono ottantenni pieni di energia, speranza e vita, quindi l’età conta assai poco sulle proprie scelte o sulla propria motivazione.
E poi vale sempre la pena di provare a vivere nella maniera più vicina alle proprie profonde aspirazioni e non fingere parti da recitare come vuole e richiede la società per farci accettare dagli altri, anche quando si vorrebbe essere o fare tutt’altro.
Una emblematica testimonianza di quanto non sia mai tardi per cambiare, ce la dà lo scrittore Charles Bukowsky in una lettera che inviò al suo editore per ringraziarlo di averlo aiutato a scegliere di fare lo scrittore a 49 anni, dopo aver lavorato fino a quel momento in un modo che trovava assurdo. Una testimonianza cruda, veritiera e bellissima.
ECCO IL TESTO
Charles Bukowski a John Martin
Ciao John,
Grazie per avermi scritto. Non credo faccia male, a volte, ricordare da dove si viene.
Tu sai i posti da dove vengo io. Le persone che ne scrivono o ci fanno i film, non ne hanno idea. Chiamano quella vita “dalle 9 alle 5” ma quel tipo di lavoro non è mai dalle 9 di mattina alle 5 del pomeriggio.
Non hai la pausa pranzo in quei posti, perché gli altri dipendenti, temendo di perdere il lavoro, preferiscono non farla.
E poi ci sono gli straordinari e i registri non sembrano mai dire davvero quanto tempo ti sei fermato in più. E se ti lamenti di tutto ciò, ci sarà un altro sfigato come te pronto a prendere il tuo posto.
Conosci il mio vecchio detto? “La schiavitù non è mai stata abolita, si è semplicemente estesa a tutti i colori della pelle”.
Ciò che mi fa male è vedere la decadenza costante di questa umanità che lotta per tenere lavori che non vuole ma ha troppa paura dell’alternativa.
Le persone sono vuote. Sono semplicemente corpi pieni di paure, con menti obbedienti. Non hanno più colori negli occhi. Le loro voci diventano orrende. E così i loro corpi. I capelli, le unghie, le scarpe. Tutto diventa orrendo.
Da ragazzo non potevo credere che le persone scambiassero le loro vite per quelle condizioni. Da vecchio uomo che sono oggi, non riesco ancora a crederci.
In cambio di cosa accettano una vita del genere? Il sesso? La televisione? Un’automobile a rate? Avere dei figli? Figli che avranno la loro stessa misera vita?
Tanti anni fa, quando ero giovane e passavo da un lavoro all’altro, ero così ingenuo che a volte volevo conversare con i miei colleghi: “Hey, ma vi rendete conto che da un momento all’altro il capo può entrare qui dentro e mandarci tutti a casa?”
Loro mi guardavano. Per loro rappresentavo un pensiero che non volevano entrasse nella loro testa.
Ora nel mondo del lavoro ci sono licenziamenti di massa. Centinaia di migliaia di persone si ritrovano senza un lavoro e sono sconvolti.
“Ho dedicato a quel lavoro 35 anni della mia vita…”
“Non è giusto” … “Non so cosa fare”
La verità è che gli schiavi non vengono mai pagati abbastanza per potersi liberare. Vengono pagati il giusto per poter sopravvivere ed essere costretti ad andare a lavorare ogni giorno. Io vidi tutto questo. Perché gli altri non ci riescono? Immagino che per me la panchina del parco o il bancone del bar andassero già bene. Perché non finire subito lì?
Perché aspettare che mi togliessero il lavoro?
È stato un sollievo enorme uscire da quel sistema di merda. E ora che sono qui, un cosiddetto scrittore professionista, dopo aver ceduto i primi cinquant’anni della mia vita, mi rendo conto con ancora più lucidità di quanto sia disgustoso.
Ricordo una volta, lavoravo in un’azienda di imballaggi.
A un certo punto uno degli altri operai ebbe una crisi e disse ad alta voce: “Io non sarò mai libero!”. Passò uno dei capi lì vicino (si chiamava Morrie) e fece una risata orribile, godendo del fatto che quell’uomo era intrappolato per tutta la sua vita.
Ho avuto la fortuna di scappare da quei posti e non importa quanto ci ho messo: mi ha donato una forma di gioia che ha il sapore del miracolo.
Ora scrivo con una mente vecchia dentro un corpo vecchio, ben oltre quell’età in cui gli uomini pensano di poter ancora scrivere. Ma visto che ho iniziato così tardi, lo devo a me stesso: devo continuare.
E quando le parole diventeranno indistinguibili e avrò bisogno di qualcuno che mi aiuti per fare le scale e non riuscirò più a distinguere un uccellino da una clip in metallo, sono sicuro che comunque ricorderò bene come sono uscito dal massacro della vita in fabbrica per riuscire almeno a morire in modo generoso.
Non aver sprecato interamente la mia vita mi sembra un gran bel successo.
Charles Bukowski, 1988
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