Perdonare, inoltre, come un atto di forza interiore e non di debolezza come siamo, talvolta, portati a credere. Tuttavia, da una parte confondiamo il perdono con la giustificazione di qualunque male ci venga fatto o con uno sforzo teso a dimenticare ciò che crediamo essere all'origine del nostro dolore più profondo e, dall'altra, siamo convinti che si nasca naturalmente portati al processo di perdono o, al contrario, non abbastanza “grandi” per riuscire a realizzarlo. In realtà, si può imparare a perdonare attraverso un percorso di conoscenza e consapevolezza centrato su ciò che profondamente sentiamo. Le ripercussioni positive sembrano ricadere non soltanto sul nostro benessere psicologico ma anche sulla nostra salute fisica, sulla nostra capacità di sviluppare rapporti migliori e meno conflittuali, di riuscire a cambiare prospettiva e a trasformare i nostri problemi in risorse. Chi perdona, in sostanza, riesce ad entrare più profondamente in relazione con se stesso, con gli altri e con il pianeta, facendosi portatore e garante di un nuovo modello basato su una cultura di pace, di risoluzione non violenta dei conflitti e di equilibrio tra uomo e natura.
Ne parliamo con Daniel Lumera, fondatore e presidente della International School of Forgiveness, progetto nato nel 2013 dalla Fondazione My Life Design.
Quando sentiamo parlare di perdono, colleghiamo questa parola alla religione. Lei che cosa intende?
Quando ho iniziato a divulgare questo tema sapevo che sarei andato incontro a pregiudizi e ad un uso del termine che lo lega alla religione. Prima di spiegare cos'è, è meglio chiarire cosa non è. La maggior parte delle persone considera il perdono come un atto di debolezza. Non significa affatto, invece, giustificare l'altro permettendogli di continuare a farci del male. Perdonare significa agire liberi dall'odio e dal risentimento, dalla frustrazione e dalla rabbia. Una volta che ci si è liberati da tutte queste cose attraverso un percorso di consapevolezza interiore, l'azione non sarà frutto di impulsi inconsapevoli e pesanti ma, al contrario, frutto di chiarezza, centratura, intento formativo e non distruttivo. Siamo abituati a vedere il perdono sotto la lente della religione cattolica e a considerarlo ciò che non è.
Perdonare significa non reagire se ci fanno del male?
Assolutamente no. Non è essere “buoni”. Amare non è qualcosa che è legato a una sorta di buonismo. Amare è qualcosa di sostanziale e rivoluzionario.
Perdonare significa fare un percorso di empatia nei confronti di chi ci ha ferito? Capire il suo punto di vista?
No, non si deve partire da lì. La maggior parte delle persone ha difficoltà a capire di che si tratta. Si deve partire da ciò che si sente profondamente.
Perdonare significa dimenticare o condonare?
No, anzi. Significa aver risolto, integrato, risolto il passato liberandolo dai contenuti di sofferenza e poi vuol dire tenerlo a mente come insegnamento e bussola per orientarsi nel presente. Perdonare, a parte l'etimologia che significa donare per eccellenza, significa avere la capacità di trasformare tutto in un dono: dal dolore più grande all'amore più grande. Quando noi ci attacchiamo a un dolore soffriamo. Soffriamo anche per amore, però. Il perdono, al di là di ciò che succede nella nostra vita, ci permette di liberarci della sofferenza e di trasformare ciò che è avvenuto, in un dono.
Lei dice che perdonare “conviene”. Quali sono i vantaggi?
Ci sono moltissimi vantaggi nel perdonare. Anche sulla propria salute fisica. Noi consideriamo il perdono come un'abilità di vita necessaria perché la scienza ha dimostrato ampiamente che chi sviluppa questa abilità è un individuo che vive più a lungo, si ammala di meno, è una persona selettivamente più adatta alla continuazione della specie, ha rapporti meno conflittuali e riesce a gestire i conflitti in modo più efficace. Chi perdona ha una qualità di vita migliore e relazioni più consapevoli e felici. Il perdono, inoltre, sviluppa importanti abilità sociali come l'empatia, la capacità di cambiare prospettiva e di trasformare i problemi in risorse. Noi lo applichiamo nelle scuole, nelle carceri, nei conflitti tra etnie e religioni.
Non si rischia con questo processo di reprimere la rabbia o il risentimento con conseguenze negative per la nostra salute e il nostro equilibrio?
E' molto importante capire cosa abbiamo dentro. E' necessario esserne consapevoli ed esprimere la rabbia che sentiamo per comprenderla. Ci sono quattro fasi importanti che si percorrono in questo processo. La prima è proprio l'accusa dell'altro. E' necessario tirare fuori tutta la rabbia che sentiamo per poi poterla comprendere. La rabbia è, in realtà, una richiesta d'amore e fa molto male. A perdonare si arriva dopo che c'è stata una rivoluzione dentro di noi. Ammettere e saper accogliere la propria rabbia è fondamentale e, se questa viene trattenuta e repressa, può essere la peggiore nemica della nostra salute. Ci si può arrabbiare nella maniera corretta e questo può diventare un modo per guarire. Ci sono persone che scelgono nella loro vita di non odiare. Abbiamo esempi come Nelson Mandela o Gandhi che hanno fatto questa scelta, per esempio.
Perché è così difficile perdonare?
Non siamo mai stati educati a farlo. Siamo abituati a guardarlo sotto la lente della religione cattolica, almeno in Italia. Dobbiamo, invece, partire da ciò che sentiamo e non è così difficile come sembra. Non succede proprio perché le persone credono che sia una cosa difficile. Siamo legati a moltissimi pregiudizi sull'amore, sul perdono e sul dolore che abbiamo difficoltà anche a sentirci. Il dolore è amore trattenuto. Immagina di sentire amore per una persona ma tu non lo manifesti. Oppure verso una persona che ti ha fatto del male, lo interrompi ma c'è. Quel movimento che non avviene e che ristagna crea sofferenza. Non comprendiamo un atto semplice ma dobbiamo lavorare su un'educazione al contrario: prima dobbiamo guardare al nostro interno e a ciò che sentiamo. Noi proiettiamo la nostra vita all'esterno e la facciamo dipendere da fattori esterni a noi. Sto parlando di un processo contrario: prima lavoro su ciò che sento dentro di me.
Lei dice che è necessario prima liberarsi dall'odio, dal dolore, dal risentimento. Come si riesce davvero a liberarsi da certi dolori che ci sembrano profondissimi e senza fine?
Partiamo da un presupposto che sembra anche provocatorio, e forse brutale detto così, di una persona che non si libera dal dolore di una relazione. Spesso si rimane attaccati a quel dolore perché non vogliamo staccarci da quel lutto. Nel momento, però, in cui lo accogliamo smettiamo di attaccarci. Il dolore è presente nella nostra vita perché ci rimaniamo attaccati. E' un po' come meditare. Quando le persone meditano e cercano di scacciare i pensieri, non ci riescono e i pensieri diventano ancora più affollati e attaccati. Nel momento in cui li si accoglie, invece, li si lascia andare molto più facilmente. Parlo di un'esperienza ultradecennale in cui mi sono occupato di questi temi anche nell'accompagnamento al morente e non soltanto nelle relazioni di coppia. Ho visto gente morente che si è liberata dalla sofferenza e posso affermare che se il dolore continua ad essere presente nella nostra vita è perché noi lo stiamo rifiutando. Rifiutarlo e non accoglierlo, non elaborarlo e integrarlo, conferisce ad esso potere e permette alla sofferenza di continuare a stare con noi.
Viene quasi da pensare che a molti di noi soffrire, in fondo, piaccia. E' possibile considerare la sofferenza come rassicurante? E' possibile pensare che rimanere in una condizione di dolore abbia dei vantaggi?
Diciamo che non abbiamo capito come funziona il meccanismo. Ad alcune persone piace sicuramente essere vittime, soffrire, restare in una condizione in cui possano lamentarsi, in cui possano giustificare il senso di fallimento che hanno. Queste dinamiche, tuttavia, sono spesso inconsapevoli. Molte persone si attaccano alla sofferenza per senso di colpa o perché si sentono inadeguate. Non soffrono tanto perché si attaccano a ciò che succede. Noi non soffriamo per l'altro ma per ciò che l'altro rappresenta. Se l'altro rappresenta la nostra inadeguatezza, soffriamo perché ci sentiamo inadeguati e dipendenti. Perché sentiamo un vuoto che non sappiamo come gestire. Invece di crescere rimaniamo attaccati all'idea che abbiamo bisogno degli altri per stare bene. Gli altri diventano una medicina del nostro male di vivere piuttosto che un'espressione libera e felice di consapevolezza. Il perdono porta alla creazione di relazioni consapevoli, felici e soprattutto non dipendenti.
Prima ci si libera dal dolore, quindi, e poi si intraprende la via del perdono o è il contrario, e proprio attraverso il perdono possiamo liberarci della sofferenza?
Il perdono per come lo concepiamo alla International School of Forgiveness, è il percorso stesso, fatto di tappe, che ti permette di liberarti della sofferenza e di riacquisire la libertà e il potere sulla tua vita.
Sembra facile a dirsi. Perché è difficile acquistare la libertà dalla sofferenza? Perché ci si innervosisce quando ci si sente dire che se soffriamo dipende da noi?
Perché le persone spesso non vogliono essere responsabili della propria vita e preferiscono pensare che sia un'altra persona a rovinargliela. Si tratta di assumersi una responsabilità, quella di poter essere noi a cambiare la nostra vita. Il perdono è un percorso di responsabilità. Non è un approccio mentale. Non porto le persone a ragionare. Ci sono dei protocolli studiati e testati in oltre 11 anni di esperienza, che hanno efficacia e che forniscono delle chiavi fisiche, mentali ed emozionali, spirituali. Molte persone non vogliono essere responsabili e si arrabbiano di fronte a questa verità.
Come opera esattamente?
Accompagniamo la persona con tecniche molto efficaci che fanno toccare con mano il fatto che l'origine della condizione in cui ci troviamo è dentro noi stessi. Questa è una cosa scomoda perché se stai male non puoi più dare la colpa a qualcuno esterno a te. Sull'altro piatto della bilancia c'è la vita, la consapevolezza e la libertà. Esistono test psicometrici che mostrano cosa avviene dentro le persone quando ci si libera dalla sofferenza.
E' una cosa così assurda pensare che si possa essere felici solo con una persona o solo vivendo in una determinata situazione? Avendola persa pensiamo di non recuperare più il benessere e la serenità. Non potrebbe essere così effettivamente in alcuni casi?
Secondo la mia esperienza noi siamo spaventati dalla nostra indipendenza e dalla nostra libertà. E' vero che con certe persone possiamo sentirci molto bene ma come esseri umani possiamo capire che le relazioni non sono necessarie per il nostro completamento ma espressione della nostra completezza. Questo è molto più soddisfacente ma non abbiamo mai ricevuto un'educazione in tal senso e siamo abituati a pensare di dover cercare un completamento in un'altra persona. Ho conosciuto molta gente unita al punto che in alcune coppie quando muore uno dei due, muore anche l'altro a poca distanza di tempo. Questa è una scelta però. Quella della dipendenza.
La letteratura, la musica, la nostra cultura in generale ci hanno sempre proposto e ci propongono questi modelli. Come fare allora ad affrancarsene?
Si pensa che l'amore sia legato necessariamente al dolore, allo struggimento, alla mancanza, alla sofferenza. Quello non è amore ma innamoramento che è uno stato di alterazione della nostra coscienza. Proietto su un'altra persona le mie necessità e i miei desideri. Poi, passato l'innamoramento, magari ci arrabbiamo con il partner perché ha deluso le nostre aspettative. Quello è un surrogato dell'amore. Molto bello ma molto lontano dal modello che proponiamo noi. Non significa non innamorarsi ma farlo consapevolmente.
Che cos'è l'economia del perdono e qual è il suo obiettivo?
E' necessario pensare a nuovi paradigmi di benessere e di sviluppo, fondati su una diversa concezione della scienza e della vita nella sua globalità, che si sviluppi su un nuovo senso di identità e consapevolezza di chi siamo e del nostro ruolo sul pianeta trasformandoci da sfruttatori a garanti della salvaguardia di ogni forma di vita. L'economia del perdono lavora per la manifestazione di un essere umano cosciente, capace di creare la propria realtà in maniera armonica ed allineata con le reali esigenze profonde di sopravvivenza e di felicità, di offrire il proprio agli altri e alla società, coscientemente interconnesso con le altre forme di vita, cosciente di essere uno con la vita stessa, capace di comprendere l'importanza del benessere collettivo come il proprio, garante dell'equilibrio del mondo naturale e delle risorse del pianeta. Un essere umano, insomma, consapevole che per cambiare il mondo deve iniziare da se stesso.
Lei ha fondato la International School of Forgiveness, un progetto formativo durante il quale si impara il perdono. Può spiegarci come funziona esattamente?
Il corpo dei docenti è formato da medici, psicologi clinici, sociologi e persone che hanno grande esperienza in materia. E' formata da percorsi di presa di coscienza di cosa il perdono sia in senso laico. Al percorso formativo partecipano casalinghe così come religiosi, medici, o persone che fanno altre professioni. Partecipano tutte le persone che sentono questa necessità. Ci sono persone che poi decidono di prendere un master e cioè professionalizzarsi. C'è un corso base in cui si presenta il metodo e lo si fa sperimentare agli allievi.
Quanto dura il corso base?
Può durare 4 o 6 ore. Durante il corso base ci si fa un'idea e se può piacerci o no. In quel caso c'è un corso di approfondimento di quattro fine settimana con corsi di specializzazione che toccano quattro argomenti: il perdono nelle relazioni, il perdono nei processi di malattia e guarigione su vari livelli e non solo fisico, un incontro dedicato all'albero genealogico e, infine, uno relativo alla nascita e alla morte, imparare a perdonare i vissuti carichi di sofferenza. Chi se la sente può frequentare il master che dura un anno durante il quale impara il metodo e ad applicarlo. Vi sono tutor che aiutano ad individuare il proprio percorso.
Avete portato questo progetto formativo anche all'esterno. Dove e a chi?
Portiamo avanti progetti molto interessanti, alcuni sono patrocinati dal governo italiano. Negli ultimi mesi i dialoghi del perdono sono stati portati con corsi di formazione annuali all'interno delle carceri e delle scuole in modo completamente gratuito. Ci sono progetti che finanziamo direttamente.
Tutto si può perdonare?
Secondo me tutto si può perdonare. Me ne sono reso conto soprattutto nelle carceri. Una volta, in un carcere, una ragazza che aveva subito abusi da bambina si è trovata davanti a persone detenute proprio per pedofilia. Lei è riuscita a perdonare.
C'è qualcuno che non la perdona per quello che sta facendo?
Le persone che più mi hanno attaccato e insultato sono alcuni cattolici integralisti. Le rigidità esistono anche nella cultura cristiana. L'esaltazione è comunque una costante dovuta alla rigidità e non alla religione in sé.
Nel nostro processo di perdono, che ruolo ha, se ce l'ha, la persona che viene perdonata? E' coinvolta in qualche modo o il nostro percorso è del tutto indipendente?
Dal nostro punto di vista è del tutto indipendente. Alla fine c'è una scelta che è quella di completare la riparazione di ciò che è successo anche all'esterno. Si fa, però, da una condizione completamente differente e, cioè, liberi da dolore, colpa e sofferenza. La riconciliazione, prima di tutto, deve avvenire dentro. Se avviene fuori deve essere una libera scelta. Non può essere che un atto esterno condizioni l'andamento della nostra vita. Così si dà un potere enorme all'altro. Per qualcuno, però, quella condizione, cioè la richiesta di essere perdonati da parte di chi ci ha fatto del male, diventa essenziale per attivare il processo di perdono. Può essere senz'altro importante ma liberarsi dall'esigenza che qualcuno faccia qualcosa per farci stare bene può essere una meccanica che non ci permette di liberarci.
Che cos'è la dieta del perdono?
Si tratta di una pratica che serve per farci capire, toccare con mano e sperimentare che noi abbiamo una dieta emozionale e mentale costituita da una gamma di alimenti emozionali che influenzano la salute del nostro corpo. Le emozioni sono alimenti e dobbiamo scegliere tra alimenti nutritivi e riequilibranti e alimenti malsani. La dieta del perdono ci sposta da una dieta emozionale basata su alimenti come rancore, paura, impotenza, rabbia, desiderio di vendetta, odio a una dieta basata su alimenti come gratitudine, consapevolezza, simpatia, gioia, liberazione, amore, leggerezza. Ogni giorno dovremmo chiederci quante di queste emozioni proviamo quotidianamente. Il perdono è una sorta di integratore che ci porta pian piano a nutrirci di esperienze costruttive e rigenerative.
Qual è al momento il feedback delle persone che intraprendono il processo di perdono secondo le sue indicazioni?
Al momento ho feedback positivi ma questo non significa che in poche ore si possa giungere a perdonare. Si inizia però ad applicare il principio secondo il quale siamo responsabili della nostra vita. Tutte le persone che frequentano i nostri corsi riescono, comunque, a entrare nel processo.
Ogni giorno leggiamo articoli o vediamo coach, guru e maestri che ci propongono la ricetta per la felicità. Lei dice che il perdono è una delle strade per arrivarci. Non è una parola troppo abusata? Che cosa significa, secondo lei, essere felici?
Siamo abituati a considerare la felicità come dipendente da quello che abbiamo o che non abbiamo. Oppure da ciò che possiamo o non possiamo fare. Noi parliamo di una felicità che dipenda dalla consapevolezza di esistere. Se davvero siamo consapevoli di esistere pienamente, questo crea in noi una dimensione naturale di felicità. Non siamo affatto educati alla felicità, siamo educati al fatto che qualcuno possa vendercela dall'esterno. Esistono veri e propri corsi che la vendono, che ci insegnano come fare denaro, per esempio. L'obiettivo è essere felici. C'è un altissimo livello di manipolazione intorno a noi che ci insegna come avere o fare per poter essere felici ma si tratta di una felicità condizionata, effimera e transitoria e non è quello che vorrei trasmettere. Quello che trasmetto è che l'esperienza della felicità autentica si manifesta quando noi diventiamo svegli e consapevoli dell'esistere e presenti nella vita. Non possiamo, da quella consapevolezza, che essere felici perché siamo immersi nel miracolo della vita che diamo per scontato. Non siamo preparati a questo tipo di messaggio.
Qual è la reazione dei detenuti quando proponete la Via del Perdono?
A volte i detenuti ci insultano, a volte sono arrabbiati perché sentono che la loro vita è finita. Si vive in condizioni di estrema sofferenza ma spesso c'è anche accoglienza e fame di esperienza in questo senso. Qualcuno entra in un percorso interno e trasforma la sua cella in un luogo di scoperta di se stessi e meditazione. Questa può essere una strada
Il perdono e i bambini. Come reagiscono quando lei li incontra nelle scuole?
Con i bambini è più semplice. Capiscono subito tutto ed entrano immediatamente in una connessione di perdono. Sono empatici, capiscono la compassione.