di
Giorgio Cattaneo
22-02-2012
Il premier Mario Monti ha annunciato la sua intenzione di importare nel nostro paese modelli di lavoro già esistenti in nord Europa, a partire dalla Danimarca. Nello specifico, il riferimento è quello alla 'flexsecurity', letteralmente un mix tra flessibilità e sicurezza. In cosa consiste questo modello lavorativo e, soprattutto, è realmente importabile in un paese come l'Italia?
Per la riforma del lavoro, il premier Mario Monti è stato molto chiaro: “Ci muoveremo con moderazione verso modelli che esistono con successo in Nord Europa a partire dalla Danimarca, che è la più celebrata in termini di 'flexsecurity' (mix tra flessibilità e sicurezza), anche se non diventeremo necessariamente danesi”. Quindi, tutti a Copenhagen a studiare questo modello di successo.
Peccato che, negli ultimi anni, sia notevolmente peggiorato e non garantisca più i migliori lavoratori: se perdi il lavoro, hai meno tempo per trovarne un altro – e ormai ti tocca accettare un impiego qualsiasi. A dirlo è un italiano che in Danimarca c’è da più di 40 anni, Bruno Amoroso, economista e professore emerito della storica università di Roskilde, a 35 chilometri dalla capitale danese.
Partiamo da un punto fermo: il licenziamento. In Danimarca, avviene senza protezione: non esiste l’articolo 18 che impone il reintegro del lavoratore. Ma, subito dopo la perdita del posto di lavoro, interviene la sicurezza sotto forma di sostegno sociale. Che però, nel corso degli ultimi anni, è stato pesantemente eroso.
Fino ad otto anni fa, spiega Amoroso a Italia Oggi, il lavoratore danese poteva godere dell’assegno di disoccupazione fino a 5 anni, cioè praticamente fino a quando non ritrovava una condizione di lavoro per lui soddisfacente. Il licenziato danese aveva quindi la libertà di rifiutare proposte non in linea con il curriculum.
In Italia, si racconta che un disoccupato in Danimarca continui a percepire il 90% dello stipendio: in realtà riceve il 90% del salario medio di un lavoratore dell’industria, cioè un mensile di 1600 euro lordi. “È vero che i lavoratori che hanno salari medio–bassi ricevono una quota che si avvicina al loro precedente stipendio – ammette Amoroso – ma indubbiamente per tutti gli altri è una forte riduzione”.
L’altro aspetto negativo, sottolinea Carla Signorile, autrice dell’intervista per Italia Oggi, è che negli ultimi anni è diminuito l’arco temporale durante il quale si percepisce l’assegno di disoccupazione. “Al massimo si può restare disoccupati per tre anni”, spiega Amoroso, ma già dopo il primo anno “scattano forti pressioni per accettare nuovi lavori o fare corsi di riqualificazione”.
Tuttavia, aggiunge il professore, se il lavoratore licenziato rifiuta, “gli viene tolto il sussidio e finisce su quello sociale che equivale alla pensione minima, ovvero un livello molto basso”. Esempio: ad un impiegato bancario che resti disoccupato, dopo il primo anno viene offerto un qualunque lavoro, anche umile, come la distribuzione dei giornali a domicilio ogni mattina. E se rifiuta, perde il contributo di disoccupazione.
Il peggio, dice Amoroso, è che queste regole non hanno niente a che vedere con il sistema di sicurezza sociale che la Danimarca vantava fino a un decennio fa: “La 'flexsecurity' danese funzionava fino alla fine degli anni ‘80, poi il concetto è stato ripreso dalle autorità europee e lo hanno completamente stravolto, peggiorandolo”. In Danimarca, aggiunge l’economista dell’università di Roskilde, la flessibilità “era considerata come libertà dei lavoratori di scegliere il lavoro che preferivano a seconda delle loro capacità”.
Una gara virtuosa: “Gli imprenditori finivano per farsi concorrenza tra loro offrendo migliori condizioni lavorative per attrarre i più capaci”. La sicurezza c’era: “Durante questi passaggi tra un lavoro e l’altro, oltre a godere dei vantaggi di un sistema efficiente di servizi, il disoccupato veniva indennizzato in modo soddisfacente”. Poi, l’appannamento della 'flexicurity': “Negli ultimi anni è stato ridotto il periodo di disoccupazione, ma è stata tolta anche la scelta del lavoro che si vuole fare”.
Ma si può importare in Italia questo modello? Questo sistema che oggi funziona in modo zoppo costa in Danimarca circa il 4.5% del Pil, mentre in Italia gli ammortizzatori sociali costano appena l’1% del prodotto interno lordo. Sicuramente la Danimarca parte avvantaggiata, sottolinea Italia Oggi, perché a Copenaghen e dintorni non esiste il sommerso, settore che da noi rappresenta il 30-35% del mercato del lavoro e delle attività produttive.
In Danimarca “si sa chi lavora e quanto guadagna esattamente”. Il problema, conclude Amoroso, è che in Italia esistono le condizioni perché troppe aziende continuino tranquillamente a restare nel sommerso: se emergessero, finirebbero per scomparire.
Articolo tratto da LIBRE
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