Ad affermarlo, dati alla mano, è un folto gruppo di ecologi marini guidati da Chris Perry, del College of Life and Environmental Sciences della University of Exeter, del Regno Unito. Le barriere coralline sono piuttosto generose nell’offrire una pluralità di “servizi naturali”: costituiscono autentici hot spot di biodiversità marina – ospitano il 25% di tutte le specie che vivono negli oceani – ed attraggono anche molti turisti. Ma un servizio davvero speciale è quello di offrire una barriera molto efficace ai marosi e, dunque, di proteggere le coste: spiagge, rocce, manufatti realizzati dall’uomo.
In questo momento molte barriere coralline sono in difficoltà per una serie di cause non del tutto note. Queste barriere naturali sono state costruite in tempi lunghissimi da piccoli polipi organizzati in colonie. Gli animaletti depositano costantemente carbonato di calcio in cima alle barriere e così, grazie anche all’aiuto di sedimenti, riescono a farle crescere o, almeno, a tamponare le ferite inferte dalle mareggiate.
Il lavoro di Chris Perry e dei suoi colleghi è semplice da spiegare. Forse un po’ meno da realizzare. Perché hanno studiato lo stato attuale e l’evoluzione nel tempo di 202 barriere coralline. L’analisi non ha dato risultati incoraggianti: perché solo 16 barriere coralline nelle zone tropicali occidentali dell’Oceano Atlantico e 6 nell’Oceano Indiano hanno dimostrato di essersi adattate bene ai cambiamenti climatici e hanno saputo seguire l’aumento del livello dei mari. Uno dei motivi è che non solo i mari aumentano il loro livello, ma a causa dei cambiamenti climatici si stanno riscaldando. E l’aumento della temperatura contribuisce a indebolire la capacità di sopravvivere delle colonie di polipi.
Ma lo studio risulta ancora più allarmante per il futuro. Perry e i suoi colleghi hanno preso in esame gli scenari proposti per fine secolo dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle nazioni Unite, relativi sia a un ulteriore forte aumento del livello dei mari sia a un ulteriore riscaldamento delle acque. Aggiungeteci poi l’aumento dell’acidità e avrete un’idea di quanto stress debbano sopportare le barriere coralline, in media, un po’ in tutti gli oceani. Così, anche attenendosi ai due scenari più ottimistici dell’IPCC, con un incremento dell’altezza delle acque di non più di 0,5 metri, solo il 9% delle barriere coralline potrà adattarsi. Il 91% non riuscirà ad accrescere la propria altezza con la stessa velocità degli oceani.
Risultato: le barriere coralline non risulteranno più una barriera efficace contro i marosi e le coste finora protette subiranno un attacco inedito da parte del mare. Gli ecosistemi marini di questi hot spot di biodiversità saranno sconvolti. Le coste erose, gli insediamenti umani messi a rischio.
Si può fare qualcosa? Certo che sì, sostengono Perry e i suoi colleghi. La prima cosa ovvia è mettere in atto le politiche di prevenzione dei cambiamenti climatici, per minimizzare l’aumento del livello dei mari. Ma c’è qualcosa di più specifico: aiutare le barriere coralline a crescere in altezza più di quando non riescano a fare da sole. Le opzioni in campo sono due. Una di tipo ingegneristico: proteggere con barriere artificiali le barriere coralline. Il che consisterebbe in una sorta di cementificazione dei mari. Molto costosa e poco efficiente. La seconda opzione è una sorta di riforestazione: piantare coralli vivi sulle barriere coralline esistenti, utilizzare i sedimenti tipici utilizzati dalle colonie di polpi e, così, rinforzare la loro naturale capacità di adattamento. Secondo Perry e colleghi questa seconda opzione è la strategia di adattamento meno costosa e più efficace. E, anche, meno invasiva.
La morale di questa storia in fondo è questa. I cambiamenti del clima in atto generano conseguenze non sempre previste e neppure sempre prevedibili. Occorre evitare gli effetti sorpresa. E avere ben chiaro in mente come reagire. Evitando improvvisati interventi muscolari e assecondando il più possibile le capacità di adattamento degli ecosistemi.
Pietro Greco
Laureato in chimica, giornalista scientifico e scrittore. È responsabile del Centro Studi di Città della Scienza e direttore della Rivista Scienza&Società. È autore di oltre venti monografie sulla scienza e sulla storia della scienza. È conduttore di Radio3Scienza. Collabora con le università Bicocca di Milano e Sapienza di Roma. Ha fondato, insieme ad altri, il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. È membro del consiglio scientifico di ISPRA. Collabora con la rivista Micron.