Liberalizzazioni. Centri commerciali sempre aperti, e la crisi aumenta

Fra le misure di 'sostegno economico' previste dal nuovo governo Monti, figura anche la liberalizzazione degli orari di apertura delle attività commerciali. Il rischio però è quello di penalizzare lavoratori e piccoli esercizi commerciali, schiacciati dalla Grande Distribuzione. Ancora una volta, per uscire dalla crisi si stimolano i consumi. Eppure il meccanismo malato dell'attuale sistema è proprio il consumismo sfrenato.

Liberalizzazioni. Centri commerciali sempre aperti, e la crisi aumenta
Sono numerose e rilevanti le criticità contenute nel contestatissimo 'decreto liberalizzazioni' proposto dal Governo Monti. Se le notizie riguardanti le levate di scudi delle varie categorie professionali – avvocati, giornalisti, tassisti solo per citarne alcune – hanno trovato ampio spazio nella discussione mediatica, meno si è parlato, forse perché una considerevole fetta dell’opinione pubblica ne condivide il senso, della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali. Eppure, le conseguenze che questa misura rischia di avere non solo sul tessuto economico locale, ma addirittura su un intero modello di consumo, sono davvero catastrofiche. Andiamo con ordine. Già la manovra finanziaria dello scorso anno, la legge 111 del luglio 2011 emanata dal Governo Berlusconi, prevedeva una serie di misure volte a deregolamentare gli orari e i giorni di apertura delle attività commerciali, eliminando di fatto quasi ogni paletto, dalla chiusura domenicale alla mezza giornata settimanale, fino ai periodi di ferie. Era però prevista una rilevante limitazione, che circoscriveva l’applicabilità del provvedimento alle sole città di interesse turistico. La recente manovra del Governo Monti ha recepito e riproposto le disposizioni in termini di orario, eliminando però anche quest’ultimo paletto: dal 2 gennaio del 2012 infatti, per gli enti locali italiani è partito un conto alla rovescia di novanta giorni, il tempo che hanno a disposizione per adeguare le direttive in merito alle aperture degli esercizi commerciali nei territori di loro competenza. Già, perché la disciplina di questa materia spetta alle istituzioni locali, alcune delle quali per la verità si sono già mosse, ma non nella direzione indicata dal professor Monti. La Toscana infatti, seguita poi dal Piemonte, ha annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale, davanti alla quale impugnerà l’articolo 31 della manovra. Estremamente caotica la situazione anche nel resto d’Italia. In Campania è guerra fra categorie: se il sindaco di Napoli De Magistris ha accolto con entusiasmo l’iniziativa, le Confcommercio di Caserta e Napoli contestano duramente il provvedimento, così come fanno diverse sezioni di Ascom e Confesercenti piemontesi. Caotica la situazione in Emilia Romagna: il sindaco di Bologna Virginio Merola si smarca passando la palla all’assessore regionale Maurizio Melucci, che si dichiara solidale alla posizione del collega toscano, mentre anche nel capoluogo emiliano Ascom e Confesercenti si mostrano molto preoccupate. Nel frattempo, il Corriere ha interrogato i propri lettori chiedendo loro un parere in merito: oltre il settanta per cento si è dichiarato favorevole alla liberalizzazione. Ma a cosa è dovuto questo aspro scontro e quali potrebbero essere le conseguenze della deregulation? In realtà la spiegazione è molto semplice e si collega a una situazione che ormai da anni caratterizza lo stile di consumo degli italiani e degli occidentali in generale, sempre più attratti dai grandi centri di consumo – le strutture della Grande Distribuzione Organizzata –, che stanno deterritorializzando l’economia, non solo assorbendo ricchezza dal tessuto locale senza poi lì reinvestirla, ma modificando anche le abitudini, gli stili e la cultura degli abitanti del territorio, introducendo nuovi modelli senza radici né identità. Questi centri stanno ridisegnando la conformazione stessa delle nostre aree urbane, che vengono spartite fra l’uno e l’altro in base ai bacini commerciali, e sostituendo gradualmente i tradizionali luoghi di socialità e aggregazione delle città – strade, parchi, bar, musei, cinema, teatri e così via – a cui propongono alternative posticce, 'piazze virtuali' che hanno il solo scopo di costituire un luogo di decompressione fra un negozio e l’altro e si inseriscono in un percorso di consumo studiato a tavolino. Un esempio concreto di questa situazione è fornito da quella che è già stata definita 'cittadella dello shopping', una porzione del Comune di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, letteralmente colonizzata dalle ciclopiche strutture della GDO. Centro Meridiana, Shopville Gran Reno, Ikea e Leroy Merlin sono le firme di punta di questo distretto, che già si frega le mani pregustando il boom che la liberalizzazione potrà portare. Le stime del direttore di Shopville Gran Reno prevedono un milione di presenze aggiuntive e un numero di domeniche di apertura che passerà dalle sedici attuali a quarantotto. L’altra faccia della medaglia parla di quasi duemila dipendenti mobilitati per far fronte ai nuovi orari, con i sindacati che già promettono battaglia. Preoccupatissimo il sindaco di Casalecchio Gamberini, che teme che questo sarà il colpo di grazia per gli esercizi storici del territorio, che già versano in condizioni critiche. Sembra quindi questo l’effetto più probabile della manovra di Monti: allargare ancora di più la forbice fra la GDO e le attività commerciali tradizionali. Oltre alla colpevole sconsideratezza dei rappresentanti governativi, però, ritengo opportuno sottolineare un altro dato preoccupante, simboleggiato da quel settanta per cento di intervistati che si è dichiarato favorevole alla liberalizzazione: diventeremo quindi come gli americani, svuoteremo le nostre città per passare i fine settimana chiusi in centri commerciali a fare shopping e sfamarci in qualche fast-food? Ci lasceremo raggirare da un meccanismo economico che drena la ricchezza del territorio esportandola altrove e quindi impoverendo sempre più il territorio stesso? La trappola tesa dai nostri nuovi rappresentanti istituzionali ha questo scopo, cerchiamo quindi di fare in modo che quel trenta per cento di contrari diventi l’ottanta, il novanta, il cento per cento. Diversamente il decreto 'salva Italia' non farà altro che affossare sempre di più il nostro Paese. D’altra parte, com’è possibile pensare di risollevare stimolando i consumi un sistema il cui male peggiore è proprio il consumismo sfrenato?

Commenti

A proposito della liberalizzazione del commercio Il "valore" delle giornate festive sono nelle civiltà mature e adulte, momenti di riposo, svago, coltivazione dei propri interessi privati (dalla cultura al divertimento, dall'intensificarsi degli affetti personali alla professione, per i credenti, della propria fede). È cosi in gran parte dell'Europa, anche perché siamo ormai in una nuova epoca: fuori dal consumismo della fine del secolo scorso e fuori dall'illusione di una crescita continua dell'economia e del reddito. È poiché la crisi in atto è la conseguenza di questo sistema consumistico e decadente di valori, ritengo che nelle domeniche e nelle feste si devono "consumare" soprattutto i beni relazionali tra le persone, prima ancora che quelli materiali. Si rispetti anche chi non vuole scimmiottare l'american-life e il fast-life, ma che vuole uno stile di vita più lento, più adeguato ai tempi dell'uomo e delle relazioni sociali. Ma siamo sicuri che liberalizzazione tout court degli orari farà aumentare il Pil? Non ha senso liberalizzare gli orari dei negozi, ben sapendo che si fa un regalo ai poteri forti della Grande distribuzione e si penalizza cosi il negozio di vicinato che è invece da tutelare. La sua funzione, oltre le finalità meramente commerciali, da sempre agisce da collante sociale e da presidio del territorio quale medicina alla malattia del degrado e delle sacche di insicurezza sia nei centri storici che nelle periferie e nei piccoli comuni. Si impone un più equilibrato modello di sviluppo.
gianni, 24-01-2012 10:24

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