di
Andrea Degl'Innocenti
25-08-2011
Uno sguardo sulla situazione della guerra in Libia, che sembra avviarsi ad un epilogo ma con molte dinamiche ancora da chiarire. A partire dall'identità e dal ruolo dei cosiddetti ribelli, passando per la figura di Gheddafi fino a giungere alle prospettive future per il paese ed agli interessi della coalizione della Nato. Con la conferma che, come ebbe a dire Eschilo 2 millenni e mezzo fa, “in guerra la verità è la prima vittima”.
Nel concitato guazzabuglio di articoli, foto, filmati, post, tweet che si susseguono senza tregua nelle ultime ore ci appare come un porto sicuro – fin troppo allettante – la prospettiva di accogliere con fermezza una versione dei fatti, scegliere alcune fonti, scartarne altre e dettare al proprio pc quella che senza dubbio riteniamo essere la verità assoluta; tracciare una linea netta che divida i buoni dai cattivi, i vincitori dagli sconfitti, i lealisti dai ribelli, la gioia dal dolore e dallo sconforto.
Ma nel cercare spiegazioni semplici a situazioni complesse rischieremmo di tralasciare importanti frammenti di verità, di comporre un puzzle con una sua logica autonoma ma che si distacca – chissà di quanto poi – dalla realtà dei fatti. Una realtà difficile da ricostruire persino per quei pochi giornalisti stranieri rimasti a Tripoli, praticamente prigionieri dell'albergo in cui alloggiavano dato che – stando a quanto affermato dal giornalista Mahdi Nazemroaya del Center for Research on Globalisation – sia lo staff che il personale di sicurezza sono fuggiti per salvarsi la vita. Figurarsi per chi, come me e molti altri, se ne sta comodamente seduto di fronte ad una scrivania a centinaia di chilometri di distanza dai bombardamenti.
Dico questo perché invece pare essere pratica diffusa fra i media mainstream di tutto il mondo – perlomeno di quello occidentale – accogliere in maniera del tutto acritica la retorica dei ribelli in lotta per la democrazia. E non parlo di sconosciuti cronisti, giornalisti alle prime armi, ma di fior fior di penne, da cui ci si aspetterebbe perlomeno un'analisi un po' meno superficiale.
È sconcertante l'enfasi con cui Vittorio Zucconi commenta in un articolo la (presunta) vittoria dei (cosiddetti) ribelli: “Ci guardano e ci sorridono da un tempo che conoscemmo e che abbiamo dimenticato, il giorno della liberazione. Ce l'hanno fatta”. Ancor più inquietanti i dettagli che il giornalista porta come simbolo della rivoluzione: lo smart-phone con il quale una ragazza con i Ray-ban agli occhi filma quanto sta accadendo, il cappello da Harry Potter di un bambino che il giornalista chiama simpaticamente “maghetto del deserto”. Più che la vittoria del popolo libico quella dipinta da Zucconi sembra l'apologia del neocolonialismo occidentale.
E che dire della conduttrice della tv di stato libica con la pistola in mano che grida in camera “non prenderete le nostre televisioni, qui siamo tutti armati, vogliamo diventare martiri”? Il direttore di Repubblica.it la definisce indirettamente una serva, farabutta, bugiarda. Ma in base a cosa? Quanto è lungo il passo che separa uno squallido servo del potere da un eroe, un martire, un partigiano che si oppone con ogni forza all'invasione della propria terra da parte di truppe straniere?
A volte, poi, l'informazione di guerra fornita dai media si concentra su alcuni dettagli ritenuti in grado di scuotere l'opinione pubblica e ne tralascia altri, ben più rilevanti. Sempre su Repubblica.it si leggeva in homepage che i “Cecchini di Gheddafi sparano sui bambini”. Pare infatti che i cecchini del Rais abbiano colpito a morte due bambini di 5-6 anni che sventolavano con il padre la bandiera dei ribelli. Sicuramente un'azione atroce, capace di suscitare sdegno e compassione; nessun riferimento, però, veniva fatto alle migliaia di morti civili – fra cui sicuramente molti bambini – causati dai bombardamenti Nato, con oltre mille vittime solo nelle ultime tre notti.
Ma i punti oscuri da chiarire in questa complicata vicenda non finiscono qui. Chi sono i ribelli che si scontrano da quasi sei mesi con le truppe di Gheddafi? La retorica di guerra li dipinge come la quasi totalità del popolo libico, donne, bambini, anziani, che hanno deciso di ribellarsi contro l'oppressione del regime del Rais. In realtà la situazione è assai più complessa: la popolazione in Libia è per l'85 per cento suddivisa fra le 140 qabila, tribù. Le più influenti di queste, Tuareg Zintan, Rojahan, Orfella, Riaina, al-Farjane, al-Zuwayya, hanno stretto negli anni alleanze con Gheddafi, ed il colonnello ha saputo mantenere l'equilibrio nella regione proprio grazie ad un intricato intreccio di alleanze, spesso fomentando lotte fra le varie tribù.
Le rivolte scoppiate a metà dello scorso febbraio, dunque, sono molto più simili a lotte tribali, rivolte di alcune tribù avverse al regime centrale, piuttosto che insurrezioni di un intero popolo in cerca di libertà e la democrazia (dato che in Libia non esiste un unico popolo). L'occidente ha deciso di appoggiare le tribù ribelli, enfatizzare il loro ruolo, aumentare a dismisura il loro numero nell'immaginario collettivo, per poter entrare comodamente in guerra a loro sostegno, con la sicurezza dell'appoggio dell'opinione pubblica.
Ed eccoci alla figura di Gheddafi. Ricordo che durante una conferenza organizzata dall'Anpi, un vecchio celebre partigiano, Mario Fiorentini, sostenne che era impossibile dare un giudizio su una figura complessa come Benito Mussolini. Tutto il pubblico sussultò, io compreso. Ma egli, l'unico fra tutti che Mussolini l'aveva combattuto per davvero, ribadì il concetto convinto. Ora, per quanto fornire giudizi resti comunque importante, e data per assodata l'impossibilità di fornire ritratti oggettivi, è comunque sempre una buona regola diffidare dalle opinioni troppo nette e polarizzate.
Dunque, così come diffidavamo dell'improvvisa amicizia del nostro premier Berlusconi, quando nel marzo 2010 abbracciava e baciava la mano del leader libico, che definiva “uomo di grande saggezza”, altrettanto dovremmo diffidare da chi dipinge Gheddafi come un sanguinario assassino, nemico del suo popolo, attribuendogli crimini efferati che in alcuni casi neppure ha commesso (si pensi al caso delle fosse comuni, le cui foto diffuse da tutti i giornali si sono in breve rivelate un falso clamoroso).
La figura di Muammar Gherddafi è decisamente difficile da dipingere. Come molti dittatori egli affianca elementi di grandezza ad altri di indubbia atrocità. Da una parte ha messo fine, con la rivoluzione del 1968, ad un regime ritenuto eccessivamente filo-occidente, nazionalizzando le proprietà petrolifere straniere, facendo chiudere le basi militari statunitensi e britanniche; in seguito, con i ricavi delle risorse non più in mano a potenze straniere, ha promosso lo sviluppo della Libia facendo costruire strade, ospedali, acquedotti, industrie.
Dall'altra ha trasformato progressivamente il regime in una dittatura, ricorrendo spesso alla repressione e alla violenza, annullando il multipartitismo; si è reso infine complice di numerosi attentati terroristici. Il fatto è che il suo regime, come dicevamo in precedenza, si è inserito in una dinamica di lotte tribali che non siamo del tutto in grado di comprendere con gli strumenti che usiamo per analizzare – e giudicare – le democrazie occidentali.
La questione delle tribù ci porta ad un altro dei nodi da sciogliere, forse il principale. Cosa accadrà dopo che il colonnello verrà deposto? Se, come pare in queste ore, l'esercito di Gheddafi verrà sconfitto ed il colonnello catturato entro breve tempo, che tipo di governo si potrà instaurare? L'ipotesi più probabile è che – come accaduto in Iraq dopo la caduta di Saddam – il territorio diventi una polveriera di rivendicazioni, lotte tribali, sanguinose rappresaglie.
L'ipotesi data in pasto alle masse dell'instaurarsi di una democrazia è quanto più lontano dalla realtà possa esistere; fra tutte le colpe che si possono addossare a Gheddafi, sicuramente non v'è quella di esser stato d'ostacolo all'avvento di un governo democratico e della sovranità popolare. Il popolo, in Libia, non esiste; esistono piuttosto i popoli, tanti e diversi ed in perenne lotta fra loro. Gheddafi era un perno centrale, il tassello superiore di una volta di pietra che egli contribuiva con la sua autorità – spesso con la repressione – a tenere in piedi.
Dunque la caduta di Gheddafi non è certo garanzia di maggiore democrazia, anzi. Nel caos che si verrà a creare è probabile che i paesi della Nato che tanto hanno contribuito a 'liberare' la Libia vorranno prendersi, come parziale ricompensa, la garanzia di poter sfruttare le risorse di cui il paese africano è tanto ricco, che fino a ieri erano di solo appannaggio del popolo libico. Un'aspettativa che va in questa direzione la si può già intuire dall'andamento dei mercati, se è vero che, come titola il Corriere della Sera del 22 agosto, “La Libia spinge i titoli petroliferi” a Piazza Affari.
Ma di questo, c'è da giurarci, non sapremo niente. La macchina da guerra mediatica vedrà il suo lieto fine solo con la morte, la fuga o l'esilio di Gheddafi, con le parole gaudenti di Obama e dei leader europei che già parlano di “liberazione” e “vittoria del popolo”. Quello che accadrà dopo non farà più parte della storia, del film. Si chiuderà l'occhio delle telecamere – e probabilmente si zittiranno anche blogger ed i social network sites – per riaprirsi da un'altra parte, laddove ci sarà bisogno di portare una democrazia tutta nuova. Magari in Siria, dove già rimbombano all'orizzonte echi di manifestazioni represse nel sangue e spari sulla folla. E il leader Bashar al-Assad, c'è da scommetterci, è un pessimo soggetto.
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