Frasi altisonanti, rozzi proclami ed ottuse prese di posizione. Tutti coloro che vorrebbero cacciare dal nostro Paese persone che nella maggior parte dei casi in Italia non ci vorrebbero venire e non ci vogliono restare (puntando più che altro a Francia e Germania), dovrebbero ricordarsi, o sapere, che quei profughi stanno scappando da bombe e proiettili che, nella maggior parte dei casi, abbiamo costruito ed esportato proprio noi italiani.
Nonostante le capacità dei politici italiani vadano da un minimo di imbarazzanti bacia-mano ad un massimo di frasi vacue ed insensato buonismo, l’Italia che ora si indigna con i profughi provenienti dalla Libia dell’'amico' Gheddafi e fa presente che “è già tanto che gli si dia da mangiare”, probabilmente non sa che, oltre ad essere uno dei principali partner commerciali del Paese nordafricano, è anche il maggiore esportatore di armamenti al regime del dittatore libico.
A ricordarlo ci ha pensato Unimondo, con un articolo del suo presidente, Giorgio Beretta: “Da quando nel 2004 l’Unione europea ha revocato l’embargo totale alla Libia, le esportazioni di armamenti italiani al regime del colonnello Gheddafi hanno visto un crescendo impressionante”, dice Beretta. Secondo i dati dell’Ong, infatti, si è passati dai poco meno di 15 milioni di euro del 2006 ai quasi 112 milioni di euro del 2009: un incremento del 746%.
L’aumento si è verificato soprattutto “nell’ultimo biennio, anche a seguito del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”, firmato a Bengasi nell’estate del 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar El Gheddafi i quali, all’articolo 20 del Trattato, hanno incluso “un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari”, oltre allo sviluppo della “collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate”.
I rapporti UE certificano che nel biennio 2008-2009 l’Italia ha autorizzato le proprie ditte a spedire armamenti in Libia per oltre 205 milioni di euro, oltre un terzo di tutte le autorizzazioni europee (circa 595 milioni di euro). L’Italia non è stata dunque l’unica nazione del vecchio continente ad esportare armi e a trasformarsi (ancora una volta) in esportatrice di civiltà e democrazia.
Anche gli altri Paesi che ora rispediscono (in Italia) i migranti hanno fatto affari d’oro. Nel biennio in questione hanno esportato armi alla Libia, in ordine decrescente: la Francia, con 143 milioni di euro; Malta (l’isoletta mediterranea che quando trova 300 profughi che rischiano di annegare nelle sue acque territoriali se ne sta a guardare e chiama l’Italia), con quasi 80 milioni di euro; la Germania, 57 milioni; il Regno Unito, 53 milioni; ed il Portogallo, con 21 milioni.
C’è una differenza sostanziale, però, fra l’Italia (e la Padania?) ed i suoi compagni di merende. Beretta accusa che “a differenza dei colleghi europei, il ministro degli Esteri Frattini si è guardato bene dal dichiarare anche solo la sospensione temporanea dei rifornimenti di armi a Gheddafi”. All’inizio delle manifestazioni nelle piazze nordafricane, infatti, Francia e Germania hanno annunciato l'interruzione della fornitura di armi all'Egitto (incluso il materiale esplosivo o lacrimogeno per il controllo dell'ordine pubblico), mentre la Gran Bretagna ha revocato numerose autorizzazioni all’esportazione di armi in Bahrain e Libia.
Ma perché questo atteggiamento? Per il presidente di Unimondo la risposta è chiara: il motivo sta negli affari siglati dalle industrie militari italiane con Gheddafi, “a cominciare dalle controllate di Finmeccanica”, come Agusta Westland (elicotteri da guerra), Alenia Aermacchi (aerei da combattimento) e Mbda (sistemi missilistici). Ditte che, dal 2006 al 2009, hanno fatturato grazie alle vendite alla Libia oltre 164 milioni di euro. E questo senza contare i 2,2 milioni di euro spesi in “ricambi e addestramento” per i velivoli F260W della Alenia Aermacchi, presenti in Libia in 250 esemplari. Aerei che se “in Europa vengono utilizzati come addestratori, in Africa e America latina sono spesso impiegati come bombardieri”.
Altro che föra d’i ball, ad andare 'fuori dalle balle' dalla Libia dovrebbero essere tutte queste imprese. E dall’Italia tutti questi politici che, capaci a malapena di parlare la lingua di un Paese che gli fa guadagnare ogni mese decine di migliaia di immeritatissimi euro, farebbero un favore all’intera umanità, levandosi di torno una volta per tutte. Anche perché, nonostante gli alti proclami, la situazione sono sempre e comunque ben lungi dal risolverla.
Chissà se, un giorno, gli italiani finalmente si accorgeranno che il continuo perpetuarsi di frasi inutili porta solo noi a perdere sempre più credibilità nel mondo, ed i profughi a continuare ad annegare.
E chissà se si ricorderanno che, come pochi giorni fa Carlo Bonini scriveva su Repubblica: “Anche quando tutto sarà finito, una pagina del massacro libico non potrà comunque essere cancellata. Né dalle doppiezze della diplomazia occidentale, né dal suo cinismo, né da tardive prese d’atto, né da nuovi embarghi a eccidio ormai consumato”.
Perché “quella pagina racconta che a Tripoli, Bengasi, Tobruk, il sangue degli insorti è stato e continuerà ad essere versato da armi di fabbricazione europea e russa accatastate con frenesia in questi ultimi sei anni negli arsenali del regime. Che in Tripolitania e Cirenaica, i bossoli di proiettile lasciati a migliaia sul terreno dalle armi automatiche di mercenari e milizie governative hanno inciso sul fondello matrici che ne indicano la fabbricazione italiana, inglese, belga, russa”.
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