“Se la guerra di Libia come sembra è terminata, sappiamo chi l’ha perduta: il Colonnello, il suo clan familiare, i profittatori del regime, le tribù alleate, gli amici internazionali che hanno scommesso sulla sua vittoria. Non sappiamo invece chi l’ha vinta”. Mentre ancora si combatte attorno al bunker di Gheddafi nel cuore di Tripoli, un'analisi di vincitori e vinti di una guerra 'umanitaria'.
Se la guerra di Libia come sembra è terminata, sappiamo chi l’ha perduta: il Colonnello, il suo clan familiare, i profittatori del regime, le tribù alleate, gli amici internazionali che hanno scommesso sulla sua vittoria. Non sappiamo invece chi l’ha vinta. I ribelli hanno combattuto coraggiosamente, ma sono una forza raffazzonata composta all’inizio da qualche nucleo islamista, senussiti della Cirenaica, nostalgici del regno di Idris, una pattuglia democratica.
Le loro file si sono ingrossate quando l’intervento della Nato è sembrato garantire una vittoria sicura, ma molti notabili rimasti alla finestra per mesi hanno cambiato campo solo nelle ultime settimane: la prova che il risultato era incerto e che, nella migliore delle ipotesi, il Paese sarà ora governato da una coalizione di opportunisti post-gheddafiani, a lungo complici dell’uomo che ha dominato la Libia per 42 anni.
Questa l’analisi che l’ex ambasciatore Sergio Romano elabora per il Corriere della Sera all’alba del fatidico 22 agosto, mentre ancora si combatte attorno al bunker di Gheddafi nel cuore di Tripoli. “Hanno vinto gli uomini di Stato occidentali che hanno voluto l’intervento militare?”, si domanda Romano, pensando innanzitutto a Sarkozy: “Il presidente francese aveva due obiettivi: sperava di oscurare con un rapido successo politico-militare l’imbarazzante ricordo delle sue amicizie egiziane e tunisine, e contava di diventare il partner privilegiato della maggiore potenza petrolifera dell’Africa settentrionale”. Missione compiuta? Niente affatto: “Dopo una guerra molto più lunga del previsto, Nicolas Sarkozy constaterà probabilmente che un Paese distrutto e ingovernabile è il peggiore dei partner possibili”.
E gli altri “alleati di ferro” dell’asse occidentale che ha voluto sfrattare Gheddafi? “Il primo ministro britannico ha obbedito a una sorta di tic imperiale e ha oggi altre gatte da pelare”, osserva Romano, mentre Barack Obama “non crede che la vicenda libica possa giovare alla sua rielezione e ha fatto un passo indietro non appena l’operazione è diventata troppo lunga e complicata”.
Allora chi ha vinto: la Nato? “I suoi portavoce sosterranno che il suo ruolo è stato decisivo”, dice ancora Romano, “ma ha vinto, tecnicamente, soltanto per evitare che la sua uscita di campo, dopo il fallimento dell’operazione umanitaria e lo stravolgimento degli scopi iniziali dell’intervento, divenisse agli occhi del mondo la prova della sua impotenza”.
Qualcuno, prima o poi, si chiederà se la maggiore alleanza militare del mondo abbia interesse a spendere tempo e denaro per installare al potere un partito di cui ignora composizione e programmi, aggiunge Romano. “L’incertezza del risultato raggiunto in Libia avrà l’effetto di rendere ancora meno efficace la politica dell’Europa e degli Stati Uniti in Africa del Nord e nel Levante”. Secondo l’ex capo della diplomazia italiana in Urss, di fronte a una transizione che si sta rivelando ovunque incerta e più complessa del pervisto, “l’Occidente ha bruciato ormai la carta estrema dell’intervento militare”, quello che in Libia avrebbe dovuto condurre a una pace-lampo dopo l’intervento 'umanitario' autorizzato dall’Onu.
Secondo Sergio Romano, ambiguità politica ed efficacia solo parziale e tardiva dell’opzione militare hanno di fatto indebolito le potenze occidentali decise ormai a impiegare la Nato come forza militare non più solo difensiva: “La Fratellanza musulmana in Egitto, Bashar Al Assad in Siria, gli Hezbollah in Libano, Ali Abdullah Saleh nello Yemen, Omar Al Bashir in Sudan e naturalmente Mahmud Ahmadinejad in Iran sanno che l’Occidente, assorbito dalle sue crisi economiche e finanziarie, potrà soltanto predicare democrazia e minacciare sanzioni: due armi che si sono dimostrate quasi sempre spuntate”.
Articolo tratto da LIBRE
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