"È una logica semplice quella della mafia, una logica con pochi basilari principi, regole che chiunque può intendere e decidere eventualmente di sostenere, cui obbedire e legarsi per sempre". Forse l'unico modo di contrastare questa logica consiste nell'applicare le regole, con la stessa determinazione e lo stesso rigore.
Alla fine del romanzo Il giorno della civetta, il capitano Bellodi dice a voce alta “Mi ci romperò la testa”. Parla a se stesso e con se stesso, della Sicilia da cui è appena tornato, da cui pensa, per un po’, di potersi allontanare per ricominciare a vivere in un mondo provinciale più quieto e borghese. Bellodi non ha in mente la Sicilia che le salutari ragazze parmensi di buona famiglia vagheggiano come meta di viaggi turistici e hanno fame di sentirsi raccontare. La sua Sicilia non è un fenomeno folkloristico in cui passioni carnali e primitive tessono le storie di tanti incredibili casi amorosi.
Il capitano Bellodi ha compreso ciò che lo avvince, quello su cui appunto si romperà la testa, e si tratta di una questione logica. La mafia, cui all’inizio degli anni ’70 - il romanzo esce nel ’72 - non si voleva ancora credere, e che si fingeva non esistesse, che non fosse mai esistita, rappresentava per Sciascia e per il suo personaggio, un meccanismo da conoscere, smontare, guardare pezzo dopo pezzo, per poterne ricostruire le trame e le tracce, il funzionamento, nella convinzione e forse anche nell’illusione che capirlo lo avrebbe reso meno pericoloso, meno inattaccabile.
È una logica semplice quella della mafia, una logica con pochi basilari principi, regole che chiunque può intendere e decidere eventualmente di sostenere, cui obbedire e legarsi per sempre. Per raccontare che cosa sia la mafia alle incuriosite signorine del Norditalia, il capitano racconta l’episodio di un medico carcerario che voleva togliere ai detenuti mafiosi il privilegio di risiedere in infermeria, poiché sottraevano in questo modo ad altri carcerati, malati e bisognosi di assistenza, la possibilità di ricevere quel giusto soccorso.
Gli agenti e il direttore del carcere, il ministero, il procuratore della Repubblica, il partito di sinistra in cui militava – insomma tutti i rappresentanti delle istituzioni, di un’altra logica ben più complessa e articolata - non avevano dato seguito alla sua richiesta. Avevano suggerito tutti, tradendo quella logica di cui erano portavoce ed esecutori, di sorvolare, di lasciar correre e dimenticare.
Il medico era stato punito con un’imboscata in cui i detenuti caporioni lo avevano picchiato ‘accuratamente, con giudizio’. Di quell’offesa il medico aveva ottenuto soddisfazione, in ultima istanza, proprio da un capomafia, che assolvendo alla sua legittima richiesta aveva mandato a punire e picchiare con altrettanta cura uno degli aggressori. Ecco, a questa logica ferrea nella sua semplicità, bisogna ancora resistere con fierezza e pedanteria, opponendole quella di un gruppo sociale che si riconosce nelle leggi dello Stato e se ne avvale.
Forse aveva torto il capitano Bellodi: non c’è da rompersi la testa, non c’è molto altro da capire, non si tratta di una questione intellettuale. C’è da applicare le regole, con la stessa determinazione e lo stesso rigore con cui le si vede applicare dagli avversari della legalità, a cui niente sfugge, e che sanno bene quanto della propria credibilità si giochi nel rispetto di una legge fatta per i propri odiosi obiettivi, da loro stessi e per loro soltanto. Se non combattiamo ogni giorno questa pubblica e privata lotta saremo derisi come il capitano Bellodi, come creature fuoriluogo e fuoritempo: come la civetta, “quando di giorno compare”. Se lasciamo correre salteremo in aria.