di
Romina Arena
20-01-2011
La mattanza di delfini in Giappone, nella baia di Taiji, a sud di Osaka, ha gelato il sangue di tutti coloro che in occidente hanno visto la pellicola The Cove. In molti, però, hanno interesse affinché il massacro rimanga segreto: il mercato dei delfini è troppo lucroso per rinunciarvi. La protesta da parte di alcune coraggiose donne giapponesi può segnare un piccolo ma importante passo verso una lotta più ampia e un dissenso diffuso.
Quanti abbiano visto la pellicola The Cove non possono aver fatto altro che rimanere inorriditi davanti ad una mattanza perpetrata quotidianamente nei confronti dei delfini nelle acque di Taiji, una baia a sud di Osaka, in Giappone. Da lì partono quasi tutte le offerte per coprire la domanda di delfini in mezzo mondo, in nome del pubblico ludibrio da parco acquatico o in ossequio alle nuove tendenze gastronomiche da sushi-bar.
Dai video girati e montati si percepisce come le stesse autorità nipponiche avallino crudeltà che travalicano ogni umana sopportazione.
Funziona così.
Secondo Richard O’Barry, trasformatosi da addestratore di delfini (vi ricordate Flipper?) a più acceso difensore di questi mammiferi, i trafficanti selezionano la maggior parte dei delfini per i delfinari e per le varie attrazioni acquatiche; tutti quelli che vengono scartati sono uccisi per essere poi dati alle mense scolastiche. A Taiji la stagione di caccia c’è ogni anno e dura sei mesi. Ininterrottamente.
Alle autorità nazionali non conviene divulgare le opportune informazioni sul livello di tossicità della carne di delfino (infinitamente più alto degli standard sanitari nazionali consentiti) ed i giapponesi sono per cultura portati ad avere cieca fiducia nel proprio governo per poter muovere obiezioni. Obiezioni che difficilmente potranno scaturire da un generale clima di disinformazione che serve a tutti coloro che da questo mercato traggono enormi profitti.
Per quanto già durante i lavori sul documentario i risultati relativi alla tossicità della carne di delfino siano arrivati alle orecchie di alcuni esponenti del consiglio municipale di Taiji innescando un meccanismo di denunce più o meno ufficiali che hanno dato come esito l’eliminazione dalle mense scolastiche della carne di delfino nella prefettura di Wakamaya, la mattanza nella baia non accenna a fermarsi.
Sei coraggiose giapponesi hanno inscenato una piccola ma sensazionale dimostrazione davanti alla baia di Taiji il 15 gennaio scorso.
Se ai più questa notizia sembra poca cosa davanti ad un massacro quotidiano, non sfuggano tuttavia le condizioni in cui ci si ritrova ad essere attivisti per la difesa dei delfini in un Paese che fa del commercio delle loro carni una delle principali entrate economiche. Soprattutto, non si dimentichi il clima che aleggia intorno all’intera questione.
In molti, oggi, sono consapevoli di quanto succede ai delfini che il marketing incensa dietro una fasulla campagna che li vuole animali amati e protetti. Ma nessuno è in grado di protestare per via delle forti pressioni che scaturiscono da qualsivoglia denuncia o manifestazione di dissenso. Chi lo fa rischia il posto di lavoro o, addirittura, l’emarginazione sociale.
Nella città di Taiji, poi, è difficilissimo trovare qualcuno disposto a collaborare: dall’industria dei delfini in cattività si ricavano troppi soldi per mettere a rischio questo lucroso business. In un contesto così pesante anche una piccola azione come quella di queste donne venute da Osaka e da Tokio assume una valenza importante perché squarcia il velo di omertà e paura dietro il quale molti giapponesi si nascondono e probabilmente potrà costituire un primo passo verso una forma di dissenso più ampia.