“All’idiozia, all’oscenità, alla violenza, alla disperazione, come a tutto il resto, siamo stati educati". Un bell'esperimento che ha poi cinicamente aderito al peggio, per essere appetibile nel “mercato del qualunquismo”. Daniela Mazzoli riflette sulla progressiva perdita di qualità del talk show più longevo della tv italiana, il Maurizio Costanzo Show, e sulla degenerazione della nostra società.
Il Maurizio Costanzo Show: non so che cosa abbia rappresentato per la mia generazione ma posso ricordare notti – da studente di liceo con sveglia all’alba - ridotte al minimo per aspettare la battuta dell’ospite rimasto zitto tutto il tempo con una storia da raccontare, o per ascoltare la risposta di questo a quello, e come si sarebbe sviluppato ancora l’argomento dal punto di vista del tipo più assurdo.
Perché almeno all’inizio, dico nei primi tre o quattro anni, le scalette erano fatte proprio bene, costruite come un copione teatrale: i tempi, le pause, le improvvisazioni, gli applausi. Ogni invitato era una maschera, compreso il pubblico. Finalmente. Molto educativo, quindi, altroché la scuola impegnata a sedarci, imprigionandoci in un vocabolario standardizzato, dentro un elenco infinito e insensato di nozioni facili da dimenticare.
Sul palcoscenico del Costanzo – come si è poi cominciato a chiamarlo - si metteva in scena la dialettica, il ragionamento, con le sue premesse, le divagazioni, il gioco e l’acume che costruiscono spazi di crescita e di esplorazione: il modo in cui si impara davvero ogni volta che si impara qualcosa. Un bell’esperimento, fino a un certo punto.
Poi ho ricominciato ad andare a letto presto. La luce si era spenta, la platea, inclusa quella da casa, era tornata all’umiliante funzione di passiva fagocitatrice per uno spettacolo preconfezionato che del teatro aveva conservato giusto la scenografia. Il successo del programma era servito a trasformare la proposta in bancarella, l’azzardo espressivo in banale pettegolezzo.
Non solo uomini politici ma anche intellettuali, scrittori e docenti si piegavano volentieri al confuso mercato del qualunquismo, pronti a tradire il proprio compito di facilitatori tra ciò che si sa e quel che si ignora, tra verbalizzazione e afasia, abdicando il coraggio di proporre alternative di umanità a una cinica quanto consolatoria adesione al peggio.
Se potessimo rivederle ora quelle puntate capiremmo attraverso quali passi siamo arrivati a una società incapace di discutere, ascoltarsi, di imbastire discorsi comuni. Capiremmo attraverso quali strategie della direzione (televisiva) si è favorito un certo vizio della parola a danno del pensiero. Capiremmo che all’idiozia, all’oscenità, alla violenza, alla disperazione, come a tutto il resto, siamo stati educati. A notte tarda, quando l’inconscio era sulla soglia.
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