di
Virginia Greco
08-10-2010
La Germania non chiuderà le centrali nucleari nel 2021 come stabilito precedentemente, ma prolungherà la loro attività per 8 o addirittura 14 anni, a seconda della data di entrata in funzione. L’opposizione e buona parte dell’opinione pubblica sono tutt’altro che favorevoli a questo progetto, ma Angela Merkel appare ferma e decisa sulla sua linea.
Il governo tedesco di Angela Merkel intende prolungare l’attività delle 17 centrali nucleari per le quali era stata decretata la chiusura entro il 2021. Annunciato il progetto, si è scatenata la polemica. L’opposizione e gli ambientalisti non sono d’accordo e del resto nemmeno una grossa percentuale della popolazione.
Era stato il precedente governo di centro-sinistra dei Social Democratici e dei Verdi (sotto la guida di Gerhard Schroeder) a stabilire che gli impianti nucleari in questione - ossia la maggior parte di quelli presenti in territorio tedesco - cessassero di produrre energia nel 2021, per lasciare spazio ad un maggior ricorso alle fonti rinnovabili; si prevedeva infatti che queste ultime arrivassero a coprire il 23% del fabbisogno nazionale entro tale anno.
La cancelliera Merkel ha comunicato che, a differenza di quanto a quel tempo decretato, le centrali attive da prima del 1981 resteranno aperte 8 anni più del previsto (dunque fino al 2030), mentre quelle entrate in funzione più di recente chiuderanno i battenti non prima di altri 14 anni (ossia nel 2036). L’obiettivo dell’abbandono del nucleare si fa dunque sempre più lontano.
Ad appoggiare fortemente la proposta è il Ministro dell’Economia, Rainer Bruederle, secondo il quale ciò consentirebbe di mantenere bassi i prezzi e di assicurare il fabbisogno di energia senza problemi più a lungo. I sostenitori dell’iniziativa affermano anche che, in tal modo, si potranno soddisfare le esigenze relative alla riduzione di emissioni di gas serra nell’atmosfera dettate dall’Unione Europea.
Nettamente contrario è invece il Ministro dell’Ambiente Norbert Roettgen, il quale sta cercando almeno di limitare a otto anni l’estensione per tutte le centrali. Secondo Roettgen, sulla base di studi fatti in merito da appositi istituti, la riduzione di emissioni di CO2 e dei prezzi dell’energia sarebbero minimi, poco significativi, anche se si estendesse l’attività delle centrali per almeno altri 20 anni. Di contro, spostare la data di chiusura significa ridurre la pressione per lo sviluppo delle fonti alternative.
È proprio questo, infatti, il timore che si agita nelle menti dei contestatori e in generale degli ambientalisti: quella che sarebbe dovuta essere una fase di transizione viene in tal modo notevolmente allungata, tanto da far sospettare che il passaggio e il definitivo abbandono del nucleare non ci saranno mai. D’altro canto, avendo più tempo a disposizione, il governo potrebbe decidere di ridurre gli investimenti nella ricerca per le energie da sorgenti rinnovabili e nella loro diffusione. Sebbene questo non sia lo scenario immediato, secondo alcuni analisti potrebbe diventarlo molto presto.
Per il momento Merkel afferma che - al contrario - aumenterà le tasse per l’energia prodotta da nucleare, in modo che una parte dei guadagni conseguenti ritorni nelle casse dello stato. Una frazione di questa dovrebbe essere reinvestita nelle energie alternative.
Anche riguardo a ciò le posizioni sono contrastanti: il Governo stima che il rientro per lo Stato sarà alto; altre stime invece giungono a risultati differenti e mostrano che soprattutto i reinvestimenti sulle fonti rinnovabili saranno poco incisivi.
Di contro i guadagni per le grandi compagnie produttrici e distributrici saranno notevoli: il governo Merkel fa loro un 'regalo' davvero ingente. Proprio per questo gli avversari pensano che a indirizzare la scelta siano state le pressioni da parte delle lobbies del nucleare.
L’organizzazione non governativa Greenpeace sospetta che il governo stia giocando slealmente, pertanto minaccia di intentare causa. La tesi è che esso stia cercando di nascondere il fatto che la richiesta di energia nucleare stia diminuendo e che pertanto non ci sia alcuna necessità di allungare il periodo di attività degli impianti: il vantaggio di una simile operazione sarebbe solo l’ulteriore arricchimento delle compagnie che gestiscono tale settore economico.
L’idea che Angela Merkel avrebbe ridefinito i termini della fase di uscita dal nucleare era già circolata nel momento in cui, nel settembre 2009, in seguito alle elezioni nazionali, la cancelliera aveva formato il nuovo Governo. Ora che la proposta è emersa apertamente, il Governo deve fare i conti con la maggioranza di cui dispone in Parlamento.
Merkel pensa infatti di far passare il nuovo piano in virtù dell’approvazione di una sola delle due camere, quella inferiore, nella quale può contare su una solida maggioranza. Nella camera superiore (Bundersrat), invece, la presenza di numerosi oppositori potrebbe bloccare il progetto. Bisogna vedere se questa procedura sarà ritenuta accettabile.
L’opposizione afferma che il tentativo di aggirare il giudizio della seconda camera andrebbe contro la Costituzione e pertanto minaccia di chiedere l’intervento della Corte Costituzionale. Dal canto suo la cancelliera sostiene che non è previsto che la Bundersrat intervenga sulla materia.
Si vedrà come la vicenda si svilupperà a livello istituzionale, nel frattempo il popolo ambientalista sta già facendo sentire la sua voce, tramite proteste in strada. Due settimane fa decine di migliaia di contestatori hanno sfilato lungo le strade di Berlino, per manifestare il loro dissenso nei confronti della politica di rallentamento del processo di abbandono del nucleare a favore di fonti pulite e rinnovabili.
Nonostante il limitato consenso popolare, è difficile credere che il governo tedesco rinuncerà all’attuazione di questo piano energetico. C’è solo da sperare che esso sarà affiancato da un reale, decisivo impegno (soprattutto economico) per la crescita del settore delle energie alternative. Purtroppo un segnale favorevole al nucleare, quale quello dato da Merkel con tale proposta, non fa che appoggiare indirettamente le scelte di altri governi europei (come ahinoi quello italiano) di tornare al nucleare, o di andare avanti con esso (si pensi alla Francia).