Passeggiando per via Giulio Cesare a Roma si ha la sensazione di trovarsi nel cortile interno della bella facciata a qualche centinaio di metro più oltre. “E se invece di aggiustare soltanto la facciata pensassimo anche ai cortili, a fare pulizia nella parte buia e vergognosa della nostra democrazia?”.
Passeggiando in Via Giulio Cesare, a Roma, si ha la stessa sensazione di quando si guarda, da un appartamento di lusso, la parte interna del bel palazzo d’epoca in cui si trova: affacciati in un cortile decadente, coi balconi verandati alla buona, pareti annerite, panni stesi, tende da sole lise e sbiadite, vecchie piante abbandonate da mesi.
A pochi passi c’è Via Cola di Rienzo, un’arteria dello shopping altolocato della città, dove un paio di jeans può costare fino a 300 euro e un paio di stivali 500. Via Giulio Cesare è invece invasa da negozi cinesi, che vendono scarpe a 9 euro, magliette a 4, sciarpe a 2. Di fronte ai negozi dei cinesi ci sono decine di bancarelle di filippini e senegalesi che propongono cd taroccati, orologi e borse farlocche che ricopiano gli originali di marca.
Insomma Via Giulio Cesare è il cortile interno della bella facciata a qualche centinaio di metri più oltre. Espone tutta la nostra miseria, la nostra realtà di poveri diavoli, che non possono più permettersi certi lussi indecenti in vetrina ma ci vanno, al massimo, a passeggiare davanti. Qualche negoziante italiano, a metà tra le due vie, riesce ancora a vendere prodotti di media qualità a prezzi comprensibili.
Mi spiega, uno di loro, che i cinesi competono facilmente a quei prezzi perché non pagano tasse e non pagano nemmeno la forza lavoro, non solo quella che la merce la produce ma anche quella che presidia la cassa. Mi dice che i cinesi volevano prendersi anche il suo di negozio, però lui se la cava e non l’ha voluto cedere. Ma chi paghi gli affitti di quei negozi non è chiaro. Non è chiaro come possano, tutte quelle cianfrusaglie a pochi euro, coprire le spese di un affitto in pieno centro.
Monti stringe le mani ai dirigenti in Cina, e si augura di averli presto come investitori nel nostro Paese, sostiene che questa sarebbe l’occasione auspicabile di una reciproca crescita, e si emoziona quando tiene un discorso alla presenza di centinaia di futuri dirigenti del partito comunista. Nel film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, Aldo Moro invoca una catastrofe che riazzeri l’umanità e la faccia ripartire dalla pietra, i primi segni di convivenza, il confronto con la natura, e si dice pronto a essere lui il primo della lista, da sacrificare alla rovina. Moro in effetti fu sacrificato, non a quella che lui credeva una devastazione rigeneratrice, ma a un passo verso l’inciviltà che sostituisce oggi, all’allora ‘ragion di Stato’, una ‘ragion di mercato’.
Allora fu per salvarci dai comunisti con cui Moro voleva dialogare, oggi per accoglierli insieme ai loro capitali. Quante volte ancora l’Italia sarà disposta a deporre diritti e fiducia nella forza della ragione umana ai piedi, o nelle mani, di qualche logica ben più incerta e a lungo termine fallimentare? Di nuovo è affidata a individui eleganti e di bell’apparenza la sorte di questo vecchio palazzo che avrebbe bisogno di una reale rifondazione? E se invece di aggiustare soltanto la facciata pensassimo anche ai cortili, a fare pulizia nella parte buia e vergognosa della nostra democrazia?
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