di
Marta Carugati
18-03-2011
"La morte. Sembriamo così inadeguati di fronte a qualche cosa che in fondo appartiene alla vita, la nostra". Con queste parole, e con la consapevolezza della tragedia che ha colpito il Giappone, Marta Carugati riflette sul differente senso della vita e della morte che contraddistingue l'Occidente dall'Oriente.
Dovrei scrivere di nascita e invece, in questi giorni in cui mi capita di poter seguire al telegiornale le vicende che accadono nel mondo, penso spesso alla morte. La morte.
Che buffo, siamo così ritrosi verso la nera signora, la teniamo lontana, non le parliamo mai e un suo sguardo ci incute terrore, ci paralizza. Lo trovo buffo perché sembriamo così inadeguati di fronte a qualche cosa che in fondo appartiene alla vita, la nostra. Sarà perché su di lei non abbiamo potere e controllo. Il potere ce lo siamo presi sulla nascita ma non ancora sulla morte, o meglio, ancora qualcosa ci sfugge.
Io la trovo salvifica alle volte e come tutto, basta saperla prendere.
Non è irriverenza verso coloro che l'hanno dovuta o saputa prendere in queste giornate da incubo in una terra ancora una volta lontana da noi. Sempre l'est, lontano, prima l'Indonesia, lo Sri Lanka, la Thailandia solo sei anni fa, ora il Giappone. Così diversi tra loro ai nostri occhi, secondo le nostre valutazioni, secondo i valori di chi sta dall'altra parte.
È semmai irriverenza e rancore verso coloro che da qui, dall'ovest (quindi a debita distanza), si tengono aggrappati alle loro idee: fisse, vuote, vecchie, maleodoranti. “Perché non si agisca emotivamente”, “perché non si cambi idea ogni cinque minuti”... in un paese che ha dimenticato ciò che aveva deciso nel 1987 e torna a domandarsi se il nucleare è una risposta sensata ai bisogni dell'uomo.
Questi signori e signore preferiscono accartocciarsi molto dignitosamente a loro modo di vedere (basta una cravatta e l'aria di chi sa quello che dice), attorno ai mostri solidificati nel loro cervello pietrificato.
Così mi pare di vederli, col corpo che risponde ad un computer in avaria, ma comunque ancora in funzione.
Questi signori, che in fondo ammettono che possa accadere quanto sta succedendo (lontano da loro però), sono invitati ad andare ad aiutare le persone che si trovano in prossimità della centrale Fukushima.
È vero, sono d'accordo che non si debba usare ciò che sta accadendo per far valere un'idea, buona o sbagliata che sia. Sarebbe un errore.
Ma non credo sia un errore affermare con tutti noi stessi che il bisogno di energia che abbiamo, non può chiedere un prezzo così alto. Ci sono altre strade.
Tante cose ce le stanno facendo passare come ineludibili, dobbiamo accettare il cancro come malattia cronica ed essere orgogliosi perché siamo arrivati a poterlo combattere e ad avere una buona percentuale di sopravvivenza. Chi muore, fa parte dell'altra percentuale. Così come dobbiamo accettare queste catastrofi perché il nucleare ci serve, dobbiamo essere orgogliosi dei progressi che si sono fatti in questo campo perché... potrebbe andare peggio.
Ebbene c'è anche un meglio e va perseguito.
Io rispondo a coloro che mi dicono: “Le cose stanno così, non si possono avere capre e cavoli”, con una riflessione di questo tipo: se ti avessero raccontato la realtà che stai vivendo, prima ancora che fosse divenuta quotidiana, non l'avresti mai scelta.
Non si sceglierebbe di vivere per lavorare ma si sceglierebbe di lavorare alla vita, non si sceglierebbe di perdere l'occasione di essere se stessi, esseri irripetibili e con un dono di vita ciascuno differente e altrettanto ricco per omologarsi e appiattirsi sul nastro trasportatore del mercato con un numero che ci differenzia dall'altro.
No, non siamo nati per questo e non vogliamo morire per questo!
Io penso che le cose, tutte, possano essere scelte e non sia mai troppo tardi per sceglierle o non sceglierle.
Io ho desiderio di immaginare e realizzare un mondo diverso. So che la strada è lunga e difficile, piena di ostacoli, ma chi mi dice “NO non si può fare”, non diventerà l'alibi per farmi desistere. Chi mi dice NO sarà colui che mi ricorderà che ho bisogno di più coraggio, di più forza e volontà per smettere di parlare e incominciare a fare.
Credo sia un privilegio quando ci si accorge, dopo essere morti dentro, di essere tornati a vivere quando avviene una trasmutazione interiore.
L'altra sera stavo riprendendo a fare un lavoro dopo tanto, ripetitivo, nel silenzio... lavoravo a maglia.
Non ero su una sedia a dondolo ma per un istante ho sentito di essere stata vecchia e di essere tornata, su quel lavoro, su quel ritmo lento. Il tempo non c'era più e nemmeno la morte.
Il mio pezzo di tessuto intrecciato si chiama Vita, rappresenta i campi coltivati, le risaie, i canali dove scorre l'acqua e un luogo dove i raggi dorati del sole inondano la perfezione dell'arte umana nei paesi d'Oriente e d'Occidente, quando la giornata scorre in pace con la natura e i suoi ritmi.
Tutto ha avuto inizio da un filo di lana che ha incontrato il mio desiderio di mettere ordine in me dopo le immagini del caos che ho visto passare in televisione.
In poco tempo, dentro al fare a maglia, ho trovato che:
- sai fare una cosa solo quando sai riparare agli errori commessi;
- è difficile ripensare e rifare le cose perché da piccoli ci hanno richiesto il meglio fin dall'inizio, senza poter sbagliare quando avremmo potuto perché gli errori sarebbero stati piccoli;
- nella vita non tornare indietro, vai sempre avanti, ritroverai l'errore sul percorso e lì potrai cambiarlo.
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