"Possibile che le regole si debbano intendere come una negazione invece che come un'occasione, come un recinto invece che come un'espansione, come una cosa che non ci permette di farne alcune invece che consentirci di farne tante? E se il massimo cui aspirare fosse non tollerare la presenza dell’altro ma goderne l'esistenza? Se agissimo per la moltiplicazione del bene invece che per la riduzione del danno?".
Sere fa un noto giornalista presentava in tv il suo ultimo libro. L’argomento del libro era la libertà. L’autore sosteneva “l’ontologica vocazione degli italiani alla schiavitù”, in base a un calcolo piuttosto preciso degli anni in cui, durante l’ultimo secolo, gli italiani si sono sottoposti volontariamente (quanto può essere volontaria l’azione di uno schiavo?) a un regime dittatoriale o autoritario.
Il giornalista collegava poi l’assenza di libertà con il fenomeno della corruzione. E argomentava questa sua teoria suggerendo che dove non ci sono regole non c’è libertà. Che cioè la libertà non consiste nel fare ognuno quel che ci pare ma nell’agire rispettando regole. Aggiungeva anche, rapidamente, che infatti “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro”. Esprimeva, certo consapevolmente anche senza citarlo, un ideale del pensiero utilitarista, e in particolare del filosofo ed economista inglese John Stuart Mill.
In un saggio appassionante, intitolato On Liberty, Mill cercava di risolvere l’antagonismo tra felicità dell’invididuo e sviluppo della società attraverso l’uso di questa formula. La mia libertà finisce dove comincia la tua: una regola in grado di aiutare a capire e dunque di guidare comportamenti che, senza mortificare l’iniziativa e le diverse, legittime possibilità del singolo, non danneggino l’integrità e il bene collettivo e dello Stato.
Quando però dal bel concetto generale scendiamo nel particolare, e in particolare tentiamo una sua concreta applicazione, volta per volta, caso per caso, ci rendiamo conto che i dubbi non svaniscono e le contraddizioni aumentano. Nemmeno tenendo a mente quella premessa si può, in maniera salomonica, decidere con altrettanta giustizia. Gli interrogativi di questi giorni sul vantaggio di costruire la linea di alta velocità in Val di Susa ne sono un buon esempio.
Mi chiedo solo se qualcosa potrebbe cambiare cominciando a ristabilire il significato della parola ‘regola’. Il giornalista, come tutta la tradizione a cui si richiama e in fondo anche quella della cultura cattolica, considera la regola come un limite, una linea di confine che ci impone il punto in cui fermarsi, dove non andare, quello che non bisogna fare. Ma se fosse proprio questo uso costrittivo e puntivo della regola a incoraggiare le deviazioni, le perversioni, le corruzioni d’ogni genere, lo sguardo di sospetto e insofferenza degli uni verso gli altri?
Possibile, cioè, che le regole si debbano intendere come una negazione invece che come un'occasione, come un recinto invece che come un'espansione, come una cosa che non ci permette di farne alcune invece che consentirci di farne tante? E se il massimo cui aspirare fosse non tollerare la presenza dell’altro ma goderne l'esistenza? Se agissimo per la moltiplicazione del bene invece che per la riduzione del danno? Forse dovremmo provare a pensarci come compagni di un destino comune, e non come esserini che se ne vanno in giro misurando lo spazio delle reciproche distanze, o come bolle attente a non urtarsi per non correre il rischio di rompersi.
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