Non sdrammatizziamo

“Sdrammatizzare un abito significa espropriare il segno che porta in dono o in eredità, confonderlo, renderlo meno visibile da subito e a distanza, disorientare l’interlocutore, non fargli capire troppo presto o sicuramente che cosa aspettarsi”.

Non sdrammatizziamo
Quando la commessa di un negozio d’abbigliamento, di fronte alla cliente che esprime perplessità per l’incoerenza dell’abito col proprio carattere, guarda invece soddisfatta il risultato, crede di fare il meglio suggerendo di ‘sdrammatizzare’ la mise con un accessorio, un dettaglio, che neghi una sua definitiva interpretazione. Se il tailleur o il tubino, il completo gessato o il tessuto in taffetà sembrano eccessivi o inadeguati per l’immagine dell’acquirente, allora – ribadisce allegra e rassicurante l’esperta venditrice- si può sempre dissimularli. Così, invece di apparire delle perfette signorine di buona famiglia o delle agguerrite donne d’affari, o impeccabili esemplari di prestigiose parentele o istituzionali governatrici di affetti e di beni, si può sempre appuntare una spilla con coda di pavone, aggiungere una cinta con ganci d’acciaio e imbracciare una borsa in pelle lucida arancione. Questo dovrebbe sistemare il disagio del sentirsi fuori posto o fuori parte. In trasparenza questa situazione evoca il problema esistenziale della maschera. ‘Dramma’ significa agire. In maniera traslata e fino a noi ha assunto comunemente il senso di un’azione scenica e quindi di una rappresentazione teatrale con finale tragico e luttuoso, di solito ambientato in medie quotidianità domestiche. Per mettere in scena un dramma occorrono personaggi e ruoli, con una caratterizzazione forte e ben precisa che evidenzi i modi di pensare, di parlare, di fare, di un certo ‘tipo’ umano. Nel teatro antico le maschere (chiamate ‘persone’) erano più grandi, e i tratti del viso e della bocca esagerati, rispetto alla realtà perché tutti potessero individuarle anche da lontano e riconoscerle. Dunque sdrammatizzare un abito significa espropriare il segno che porta in dono o in eredità, confonderlo, renderlo meno visibile da subito e a distanza, disorientare l’interlocutore, non fargli capire troppo presto o sicuramente che cosa aspettarsi. E ancora prima di questo significa alleggerire chi lo indossa dalla responsabilità che quella ‘maschera’ pretende, dal ruolo a cui costringe chi non lo senta perfettamente calzante. Forse quel che la commessa vuole stimolare è la sfida alla reinvenzione di un personaggio noto, a non accettare passivamente un ruolo dato per scontato. Ma, e questo è ciò che continua a chiedersi la cliente perplessa, non sarebbe meglio continuare a cercare un personaggio che non la costringa a dissimularlo per non dissimularsi?

Commenti

Secondo me invece l'abito rimane appunto una maschera e un ruolo, cosa ben più superficiale della donna o dell'uomo che lo interpretano. Si acquisisce non una nuova identità reale ma un semplice nuovo tratto temporaneo. Tentare nuove combinazioni in tal senso può essere un modo creativo per uscire da rappresentazioni di sè che non ammettono variazioni
Marco, 09-06-2013 11:09
Direi che le cose 'superficiali' hanno grande importanza, non fosse altro che perché abbiamo solo quelle per stabilire un contatto col mondo. Il linguaggio stesso è una forma superficiale, un'evidenza, un segno, che qualche volta non ci basta e spesso tradisce invece di tradurre le nostre 'reali' e 'profonde' intenzioni. Però sono d'accordo con il fatto che si debba tentare di giocare con le proprie rappresentazioni, cioè precisamente con quella superficialità che lascia tracce anche profonde.
daniela, 10-06-2013 12:10

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