di
Daniela Sciarra
12-06-2012
Con decisione del Ministero dell’Ambiente, la facoltà di Agraria della Tuscia avvia lo smantellamento dei campi sperimentali di piante transgeniche dopo 14 anni di attività. Da tre anni non era più stata rinnovata l’autorizzazione.
Da oggi si parte con l’espianto di kiwi, ciliegi e ulivi transgenici presso l’Università di Agraria della Tuscia. Così, dopo 14 anni di attività, si dice addio alla sperimentazione in campo di OGM a Viterbo.
Si tratta di una decisione presa dal ministero dell’Ambiente, su segnalazione della Fondazione dei Diritti Genetici. La sperimentazione di olivi, ciliegi e kiwi transgenici dell’Università della Tuscia era iniziata nel 1998, ma era oramai scaduta da 3 anni. Alla scadenza dell’autorizzazione ne era stato chiesto il rinnovo, senza però ottenerlo. Dunque, la presenza delle piante OGM in campo aperto risultava illegale da circa tre anni.
A sollevare la questione di legalità era stata la Fondazione Diritti Genetici che, nei giorni scorsi, aveva scritto al ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, a quello dell'Agricoltura, Mario Catania, e al presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, chiedendo la dismissione del campo in applicazione della legge e l'avvio di un programma di ricerca.
La decisione della dismissione dei campi sperimentali è un vero successo – ha commentato Capanna presidente della Fondazione dei Diritti Genetici – ottenuto grazie all’impegno della Fondazione Diritti Genetici che è intervenuta per sanare una situazione di illegalità che si protraeva da più di tre anni. Un esempio di vero e proprio governo civico, che, sollecitando le istituzioni, ha saputo ripristinare la legalità e incentivare la ricerca. Adesso speriamo – ha aggiunto Capanna – che i due Ministeri possano coordinarsi, per evitare che i campi siano distrutti prima di aver prelevato i campioni”.
Sarebbe un grave danno per la ricerca, infatti, decidere di distruggere il campo rinunciando ad acquisire informazioni utili per capire le interazioni tra gli OGM e l’ambiente esterno. Secondo la Fondazione dei Diritti Genetici servire ora un piano di ricerca partecipata, cioè condotta secondo criteri di democrazia e trasparenza e con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati.