di
Romina Arena
31-03-2011
Le proteste della popolazione indigena panamense contro la legge numero 8 che modificava in peggio una serie di norme che regolano l’industria mineraria hanno avuto il merito di bloccare la modifica del codice sulle attività minerarie architettata per mettere le risorse del Paese in mano alle compagnie straniere.
A Panama, le proteste della popolazione indigena nelle province di Chiriquí e Veraguas contro la legge numero 8 che modificava in peggio una serie di norme che regolano l’industria mineraria, hanno prodotto effetti positivi: la legge, secondo quanto affermato dallo stesso Presidente panamense Ricardo Martinelli, sarà abrogata.
La mobilitazione, portata avanti già da gennaio e guidata dagli indigeni Ngäbe e Guaymí che non vogliono le miniere di rame sulle loro terre ancestrali, è stata controbilanciata da pesanti interventi della polizia che, secondo le proteste dei leader dei gruppi indigeni, avrebbe fatto uso di gas lacrimogeni contro donne e bambini. La polizia, dal canto suo, si giustifica sostenendo di aver agito al fine di proteggere i propri uomini dagli attacchi degli indios. Ora, sta il fatto che la polizia, solitamente ha un equipaggiamento militare piuttosto nutrito quando si appresta a contenere delle manifestazioni: scudi, manganelli. E pistole. Il pericoloso arsenale degli indios, invece, constava di pali, pietre e lance.
La protesta degli indios si è diretta contro l’approvazione della nuova legge che avrebbe permesso al Governo di autorizzare lo sfruttamento minerario del Cerro Colorado, nella riserva di Ngöbe-Buglé. Dopo averla firmata, successivamente all’adozione da parte dell’Assemblea, Martinelli fa marcia indietro ed afferma candidamente: “Non mi piacciono le miniere, i minatori e il minerario”. Ma c’è qualcosa che non torna, questa: è stato lui stesso, ribattezzato ironicamente dai movimenti sociali 'Minerelli', a volere fermamente la riforma del Código de Recursos Mineros, il codice che regola l’attività mineraria, con il chiaro proposito di favorire gli investimenti delle multinazioni straniere di settore nel paese.
Facciamo chiarezza sulla vicenda.
Nei primi giorni di febbraio il Congresso panamense ha approvato le riforme da apportare al codice, con una maggioranza molto ampia (42 voti a favore, quindici contro) che ha legittimato quello che le compagnie minerarie aspettavano da tempo: libertà di sfruttare, senza restringimenti di sorta, i territori ancestrali abitati dalle comunità indigene e contadine. Già dal 2010 gli investitori stranieri speravano di mettere le mani sul Cerro colorato, la seconda riserva mondiale di rame, di cui Martinelli aveva deciso di svendere le risorse naturali e di conseguenza la sovranità per fare cassa.
L’operazione del Governo si inserisce nel solco di una ventennale politica neoliberale di privatizzazioni che ha subito un’imponente accelerazione proprio in occasione dell’elezione, nel 2009 di Martinelli.
Il presidente panamense che vistosi alle strette si è dimostrato stucchevolmente attento alla volontà della gente in occasione delle proteste parlando di una legge mineraria “che migliaia di indigeni hanno respinto durante le ultime settimane con proteste in strada e blocchi stradali…”, è lo stesso che ha messo in piedi la cosiddetta Ley Chorizo, una serie di norme capestro che, in mezzo alle altre cose, restringono sensibilmente i diritti dei lavoratori e diminuiscono il potere di controllo dell’esecutivo in materia ambientale.
Lo strascico politico dell’italiano Martinelli è penoso: prima della sua presidenza a Panama non esisteva la povertà assoluta, mentre dopo il suo insediamento la popolazione che vive in condizioni di miseria è salita al 20% e quella che vive in condizioni di povertà è del 50%.
Le proteste contro la riforma del codice, quindi, si inseriscono nel solco di quelle già messe in atto proprio contro la ley Chorizo e raccolgono tutto il fronte dell’opposizione sociale, dagli indigeni ai contadini agli studenti, le organizzazioni popolari, i docenti.
In entrambe le occasioni, Martinelli non ha disdegnato di mandare contro i manifestanti i battaglioni antisommossa della polizia affermando che dietro la protesta ci siano non meglio precisati agenti stranieri che intrecciano trame eversive ai danni del paese.
Dal canto loro, i popoli indigeni sono contrari alla svendita dei loro territorio in quanto l’installazione di compagnie minerarie straniere sarebbe lesiva dei diritti all’istruzione, all’alimentazione, alla storia ed alla cultura di cui quei territori, in quanto terre ancestrali, sono naturalmente portatori.
E questo per un semplice fatto, molto elementare: i danni ambientali trasformeranno quelle terre in un deserto impossibile da abitare poiché l’attività estrattiva inquinerà i fiumi e le foreste, modificherà l’urbanizzazione del territorio corrompendo, in definitiva, l’ecosistema e l’armonia tra l’uomo e la natura.
La protesta, quindi, non è diretta speciosamente contro le miniere, ma, molto di più contro un modello distruttivo di sviluppo predatorio che Martinelli sta imponendo al paese ricorrendo ad un ampio appoggio, presumibilmente proveniente dagli ambienti economici ed industriali e non solo panamensi.
Commenti