“Per chi l’ha adesso in mano, il parco non è un luogo vivo, non ha un significato in sé ma, ridotto ai soli muri del forte, è un semplice ed estemporaneo contenitore di spettacoli, finito ciascuno dei quali si chiude e si va via”. Filippo Schillaci ci racconta la sua visita al parco ecologico San Jachiddu, a Messina.
Arrivo al parco ecologico San Jachiddu un po’ in ritardo a causa delle cure da prestare a un gattino - l’ennesimo abbandonato a se stesso nelle disastrate strade di Messina - che un’amica mi ha portato. È appena iniziata la visita guidata condotta da Mario Albano, fondatore e, fino a pochi mesi fa, protagonista assoluto nella gestione del parco. Gli avevo telefonato due giorni prima per avere notizie sulle ultime vicende, dopo la sua fuoriuscita dalla cooperativa che lo gestisce. “Ci sei martedì?”, aveva tagliato corto. “Sì, ci sono”. “Allora vieni al forte. C’è un incontro fra alcuni amici interessati a rimettere in sesto le cose”. Ed eccomi qua.
Il parco, situato a metà strada fra l’immenso degrado della città e la bellezza della foresta demaniale che la circonda, sorge una quindicina d’anni fa grazie al restauro dell’omonimo forte, una struttura militare della fine dell’ottocento poi finita in disuso e andata incontro per lunghi decenni al degrado e all’incuria; un lavoro a suo modo splendido. Al mio arrivo Mario è nel luogo che fu il giardino delle piante aromatiche. Attorno a lui una trentina di persone nonché l’immancabile Monsignore, il suo fedelissimo cane. E, attorno a tutti loro, la desolazione. È della massima evidenza che da lungo tempo il giardino non è curato; molte piante sono scomparse, altre vivacchiano stancamente.
Mario racconta la genesi e lo scopo di quell’angolo verde che accoglie il visitatore al suo ingresso nel parco, e ne fa notare lo stato attuale. Si entra poi nel forte e, dopo averlo attraversato, si giunge al giardino dei miti, un arboreto in cui a ogni pianta è accostata la narrazione di un mito classico che la riguarda. O meglio, si giunge a ciò che ne rimane dopo l’incendio che lo ha devastato più di un mese prima.
E qui Mario ci fa notare l’erba secca alta un metro che nessuno aveva pensato a tagliare e che ha, se non provocato, certamente favorito il propagarsi del fuoco. Mario ci fa notare anche come ancor oggi, al di là della linea raggiunta dalle fiamme, l’erba rimane indisturbata. In oltre un mese trascorso dall’incendio, e nonostante la lezione che esso ha dato, nessuno è intervenuto a tagliarla nonostante da tempo il parco abbia in dotazione una macchina trinciatrice che avrebbe consentito di farlo rapidamente e con poca fatica. A questo punto una ragazza della cooperativa interviene e domanda a Mario: “ma come puoi pensare che io sappia usare quella macchina?”.
E qui facciamo una sosta perché questa osservazione merita una prima riflessione. C’è forse fra noi chi è nato sapendo guidare un’automobile? L’abbiamo imparato frequentando una scuola guida, studiando, facendo esercitazioni di guida, superando degli esami, e pagando per fare tutto ciò. È pensabile che l’apprendere l’uso di quella macchina richieda un impegno maggiore? Probabilmente tale impegno non va oltre la lettura di un libretto di istruzioni e un po’ di pratica. Diciamo dunque la verità: esso non è al di là delle possibilità umane, è semplicemente ritenuto eccessivo a fronte di un obiettivo per il quale non si ha alcun interesse.
Proseguiamo nella visita e attraversiamo a ritroso il forte per andare verso la zona delle coltivazioni. Nel piazzale del forte Mario viene intercettato da una persona in cui mi pare di riconoscere Sandro Gorgone, attuale presidente della cooperativa, il quale chiede a Mario di interrompere la visita al parco, cui egli non sta partecipando, perché toglie tempo alla successiva discussione. Mario si oppone decisamente dicendo che prima della discussione le persone devono prendere contatto diretto col luogo, devono farne esperienza, devono vederlo con i propri occhi. E la visita prosegue.
Ma fermiamoci nuovamente, e questa volta su quel 'mi pare'. Perché, benché ad ogni mio ritorno a Messina io sia sempre stato, finché ciò è stato possibile, un assiduo frequentatore del forte, solo una volta, e solo vari anni fa, mi è capitato di vedere Sandro. Per il resto, colui che con certezza potevo aspettarmi di incontrare nel forte era Mario, affiancato per un certo tempo da Michele, un suo stretto collaboratore che poi lo lasciò per seguire altre vie.
Bene, erano loro che 'vivevano' il forte, che aprivano i cancelli al mattino e li chiudevano la sera, erano loro che prendevano in mano la zappa, la falce, le pinze e quant’altro fosse necessario. E la cesura fra il prima e il dopo si vede. Prima, porte ovunque spalancate. Oggi, lucchetti e cancelli sprangati. La prima porta che trovai chiusa fu quella della biblioteca, in cui amavo rifugiarmi dopo ogni passeggiata. Il posto di Mario era stato preso da un operaio stipendiato che non riteneva fosse suo compito aprirla. Nessun altro al lavoro, nessun altro. Infine trovai chiuso l’intero parco.
Ma riprendiamo la visita. E riprendiamola dal momento in cui, voltandomi indietro verso il pennone che sovrasta ciò che fu la piazza d’armi del forte, noto un ulteriore cambiamento. Su quel pennone fino all’anno scorso sventolavano due bandiere: quella italiana e quella della pace. Adesso è rimasta solo quella italiana.
Andiamo avanti e giungiamo ad un ampio spiazzo erboso dopo aver costeggiato il “sentiero di frate sole”, poche decine di metri che conducono a una reinterpretazione su terracotta del Cantico delle Creature. Sul margine dello spiazzo la casa sull’albero, che nelle intenzioni dichiarate di Mario avrebbe dovuto essere un rifugio di quiete e riflessione per chiunque ne avesse fatto richiesta. La conosco bene perché più volte mi ci sono arrampicato e vi sono entrato, e ho cercato in essa di estraniarmi per un po’ dalle troppe cose del 'loro' mondo che ancora mi inseguono. Oggi un ennesimo, imperioso lucchetto ne sbarra perennemente l’uscio.
Ma lo spettacolo più desolante è quello della vigna e degli orti. La vigna, che per i tempi lunghi che richiede dal momento del suo impianto alla prima fruttificazione, è, spiega Mario, “simbolo del connubio duraturo dell’uomo con la Terra”, è oggi in uno stato penoso: la maggior parte delle foglie sono ingiallite, la peronospera dilaga. Mettere un po’ di solfato di rame era poi così sovrumana fatica?
E gli orti? Si fa presto a descriverli: non esistono più. E intanto si compra frutta e verdura al supermercato. “Ma come puoi pensare che io sappia coltivare?”, mi aspetto che dica la ragazza di prima. Ma non lo dice, e in effetti sarebbe inutile. A questo punto, nessuno può più pensarlo.
Mario continua a illustrare, oltre allo stato dei luoghi che costituiscono le nostre tappe, anche il loro significato. Due parole ricorrono nei suoi discorsi: simbolo e amore. Ogni realizzazione vuole essere un simbolo di questo o quell’aspetto dell’amore verso il vivente, del rispetto dovuto al creato, alla natura o come lo/la si vuol chiamare.
La visita è finita e torniamo verso il forte dove ci attende Sandro. Prendiamo posto sotto un grande tendone e la discussione ha inizio. Il primo a parlare è Mario, seguito da Sandro, e subito la distanza fra i due appare abissale. Dalle parole di Mario emerge nettamente la sua concezione fortemente 'partecipata' al luogo, il suo vederlo come sede di vita e generatore di vita, coerentemente col suo esserci stato, con l’averlo vissuto quotidianamente per molti anni.
Anche dalle parole di Sandro emerge una grande coerenza. Egli inizia precisando che parla ufficialmente a nome della cooperativa e che essa è l’unica entità legittimata a rappresentare il parco. Ricorda la molteplicità di iniziative culturali realizzate negli ultimi mesi (apriamo una parentesi: se le newsletter inviate dal parco ne sono un catalogo completo esse sono costituite da una serie di concerti jazz di gruppi locali, da qualche passeggiata lungo i sentieri che si dipartono dal forte e poco altro). Ci illustra poi tutta una serie di procedure, regole, esiti di riunioni del consiglio di amministrazione, elogia il concetto di istituzione formale.
La parola che ricorre più spesso nel suo discorso è 'burocratico'. Ci catapulta in un mondo di carta, fatto di moduli, circolari, verbali, fatto di ufficialità e formalismo. Parlavo di grande coerenza, e in effetti una simile concezione è coerente con il suo non esserci.
Che senso ha la presenza fisica, il vivere un luogo se esso è soltanto un’appendice secondaria di una congerie rigorosamente protocollata e verbalizzata di documenti cartacei e cariche istituzionali, se da essi e non dall’agire concreto nel mondo viene la legittimazione e il senso? Una cosa è chiara: per chi l’ha adesso in mano, il parco non è un luogo vivo, non ha un significato in sé ma, ridotto ai soli muri del forte, è un semplice ed estemporaneo contenitore di spettacoli, finito ciascuno dei quali si chiude e si va via. Che senso ha restare? Per cosa? Lo spettacolo è finito, cos’altro c’è da vedere?
La discussione prosegue con numerosi altri interventi, i toni si fanno a volte, com’era prevedibile, accesi, ma a questo punto è ora di lasciare il parco ecologico san Jachiddu, o ciò che è stato tale, alle sue vicende interne e fare su quel che ho narrato alcune riflessioni che ne superano ampiamente i confini.