La parola di una vita

‘Rosebud’ è la parola che Charles Foster Kane pronuncia con l’ultimo respiro nell’inquadratura conclusiva del film di Orson Welles “Citizen Kane”. “Quella parola, scritta in caratteri gentili e un po’ antichi, si consuma lentamente tra le fiamme come una promessa irrealizzata, un’alternativa mai compiuta”.

La parola di una vita
‘Rosebud’ è la parola che Charles Foster Kane pronuncia con l’ultimo respiro. Nell’inquadratura conclusiva del film di Orson Welles “Citizen Kane” (1941), uno dei tanti operai che sta svuotando il palazzo cupo e sontuoso costruito dal ricco magnate dell’editoria, brucia i miseri oggetti inutili che restano esclusi dal recupero delle opere d’arte, dei pezzi di valore collezionati per tutta la vita, e getta nel fuoco una vecchia slitta: un arnese dell’infanzia, che porta scritto sul dorso ‘Rosebud’. Il significato di quella parola esalata da Kane prima di chiudere gli occhi nel buio della stanza, era stato l’oggetto d’indagine di un giornalista inviato a scoprire il segreto di quelle tre sillabe e con esso dell’intera, brillante, discutibile esistenza di un uomo spudoratamente ricco e smoderatamente infelice. Quella parola, scritta in caratteri gentili e un po’ antichi, si consuma lentamente tra le fiamme come una promessa irrealizzata, un’alternativa mai compiuta, la storia, meno eccezionale forse, che il bambino Charlie avrebbe potuto e voluto immaginare quando giocava da solo alla guerra sotto la neve. Quella parola era una cosa e quella cosa era il potenziale di un essere umano che non è mai venuto al mondo, a cui non è stata data l’occasione di crescere. C’è ancora quel bambino nell’anziano che muore privo di affetti e di un viso a cui guardare per l’ultima volta. È rimasto dentro di lui per molti anni, mentre l’altro Charles si espandeva e inorgogliva nel proprio successo. È di quel bambino, ogni volta che incontriamo qualcuno, che si ha tenerezza, desiderio e cura, anche quando siamo di fronte a uomini arroganti, disonesti, dannati dalla propria disperante ambizione e su cui il giudizio personale e collettivo non arretra. È di quella potenzialità che, forse, ognuno ha esigenza e nostalgia, quando pronuncia il nome di una cosa: di un’idea. È quella proiezione o quella giusta visione che vorremmo richiamare dall’oscurità in cui è imprigionata, come se fosse sempre ancora in gioco l’occasione che la resusciti prima che la fiamma ne lambisca i margini, che il fuoco dell’addio definitivo la consumi per l’eternità. Vorremmo, straziati dall’intuizione che quel nome la preannuncia come un miraggio all’orizzonte, che tornasse il suo tempo, l’allegria del principio, quando ogni strada è aperta, quando correrla non fa fatica e caderci non spaventa. Forse è con questo struggimento di futuro che anche noi ci chiamiamo l’un l’altro.

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